Penso che capiti a molti di discutere sull’identità “etnica” imolese: siamo romagnoli o emiliani ? Mi dichiaro immediatamente, Imola è Romagna. Per ragioni politiche e amministrative siamo legati alla Provincia di Bologna da tempo e questo ha portato molti vantaggi al territorio, ma tutto è testimonianza della sua connotazione romagnola: il paesaggio, le geometrie della sua terra, la lingua, le tradizioni che sembrano condurre pensiero e sensi alle gioie del mangiare. Anche la gastronomia ne è testimone. Come ha detto anche recentemente Massimo Montanari, presentando uno specifico studio durante il Baccanale, le terre di confine come quella imolese sono quelle che, paradossalmente, salvaguardano di più le tradizioni in cucina. Parlare della nostra arte culinaria significa parlare soprattutto di cucina contadina essendo, quella della Romagna, una popolazione prevalentemente rurale, eredità degli Etruschi prosperata ulteriormente a questa vocazione quando il territorio divenne provincia romana.
Ripercorriamo sinteticamente il nostro passato evidenziando come un tempo, per ovvi motivi di consuetudini e attività differenti, non era abitudine far colazione appena alzati per la popolazione comune e il latte di rado finiva al mattino nelle tazze di vecchi e bambini, perché si utilizzava per fare il formaggio. Per i più piccoli rimaneva “lo scot”, lo scarto del siero. Gli adulti, diversamente, avevano bisogno di energie per affrontare il duro lavoro dei campi e solitamente ci si fermava per la “prima colazione”, dopo alcune ore di lavoro già svolte, mangiando legumi o erbe di stagione con piadina o polenta. Varianti erano date dalla presenza di cotiche di maiale, uova o frittate tagliate a cubetti o polpette di verdura. Spesso i pasti erano solo due e la prima colazione diveniva pranzo, verso le dieci, per cenare verso le cinque del pomeriggio. Fino a metà degli anni ’70 ricordo diverse famiglie che mangiavano verso le 18, anche abitando in città. Altri cibi caratteristici erano il contorno di zampetti, orecchie e coda di maiale, che col battuto si trasformavano in ragù. La farina di granturco, sola o miscelata a quella di frumento, serviva per preparare un po' di tutto, oltre naturalmente alla polenta, e ad esempio veniva cotta con sale e acqua, condita col profumo dell'aringa e appesa alla trave sopra il tavolo in modo che, a turno, gli adulti vi strisciasse la propria fetta per non consumarla troppo in fretta.
Le minestre fatte in casa erano, e sono ancora, il piatto forte del desco, spesso “matte” cioè di sfoglia senza uova, insaporite più dalle verdure che dal condimento. Per necessità, non per seguire la dieta. Altro uso era abbrustolire formaggio e pancetta schiacciandoli tra due fette di pane per non perdere neanche una goccia di grasso. Nei giorni di festa la cucina si faceva più ricca: a pranzo e a cena non mancavano (quasi) mai minestre con brodo di gallina o pastasciutte ben condite, arrosti, stufati e magari una fetta di ciambella da inzuppare in un bicchiere di vino.
Nei confronti del pane poi c’era un profondo senso di rispetto. Io stesso mi porto appresso questo atteggiamento, frutto dell’educazione dei nonni e genitori di origini contadine, per cui non posso vedere il pane rovesciato, non riesco a tavola a tagliarlo con il coltello, ma devo spezzarlo con le mani e non faccio molte briciole. Lo sciupio del pane in genere lo vivo come un peccato. Non dimentico mai che era un elemento base per la sopravvivenza. Anche secco e raffermo era consumato in diversi modi, si ammorbidiva con acqua e si condiva con olio e sale, si cospargeva di grasso e si abbrustoliva alla fiamma. Come il pane grande importanza naturalmente aveva anche la piadina che, nella sua versione più umile, era fatta di sola farina e acqua salata intiepidita. L’uso del bicarbonato per alleggerire l'impasto senza giungere alla completa lievitazione risale ai primi del Novecento. Se la pasta è la regina, il vero re della cucina romagnola era, e rimane, il maiale. Ingrassato senza spese con le brodaglie di scarto e le ghiande, il maiale portava, con la sua morte, la ricchezza della dispensa. Si utilizzava tutto. Subito veniva fatto “e migliaz”,un dolce ricco, e le altre “cose” fresche venivano subito fritte in padella con abbondante cipolla e pancetta a lardelli, poi fegato, stomaco e le interiora per la preparazione degli insaccati, il grasso per lo strutto e infine i ciccioli. Appena fatti caldi e croccanti sono una vera delizia. Le carni bovine erano meno frequenti sulla tavola. Le “bestie” si usavano per il lavoro o per venderle al mercato e ancora oggi è visibile questa scarsità di offerta nei nostri piatti sia in casa che al ristorante. Dei formaggi vale la pena ricordare quelli freschi, squacquerone e raveggiolo, il primo come accompagnamento alla piada, il secondo per dare più fragranza ai cappelletti e alla pasta ripiena. Esiste comunque una bella tradizione anche in quelli più stagionati. I piatti che ancora oggi ritroviamo in casa o nella ristorazione del territorio, seppur a volte modificati e “alleggeriti” per questioni di mutate necessità anche caloriche, hanno comunque un forte legame alla cucina romagnola di un tempo, nata sulle necessità quotidiane e, soprattutto, su ciò che si aveva a disposizione in una terra, per anni, molto povera. (Pierangelo Raffini)