Seconda puntata della riflessione sul lavoro di Paolo Stefani. Il primo è stato pubblicato il 12 novembre.
C'è un punto preciso in cui convergono gli interessi del lavoro e del capitale quando entrambi impegnano le loro energie per migliorare l'esistente, il primo con la finalità di stare meglio, il secondo per aumentare i profitti.
Nelle considerazioni del direttore scientifico dell'Istituto italiano di Tecnologia si trova un'ulteriore conferma a una proiezione demografica nota da tempo: la popolazione dei paesi occidentali è destinata a invecchiare perché si è alzata l'aspettativa di vita e l'Italia è tra i primi posti.
Nel 2060 il 33% della popolazione europea avrà più di 65 anni (oggi sono il 18%, da notare che l'Italia è già al 23%) quindi significa che un terzo della popolazione attiva sarà ancora al lavoro in età avanzata con tutti i problemi che questo fatto porta con sé.
E' evidente quindi che nel prossimo futuro sarà sempre meno probabile che l'interesse del lavoratore di migliorare per stare meglio coincida con quello dell'impresa di fare più profitti e diventerà un limite anagrafico; la tecnologia potrà aiutare, infatti i robot offrono già oggi la possibilità di essere un valido supporto soprattutto nei lavori di routine, in quelli faticosi, in quelli pericolosi oppure dove è necessaria una particolare precisione come nella chirurgia.
Il termine robot deriva da robota, è di origine Ceca e venne coniato nel 1920 in un dramma teatrale da Karel Capek e stava a significare “lavoro duro, lavoro forzato”.
Kapek immaginava una società basata sul lavoro di esseri semi-umani costruiti producendo artificialmente le diverse parti del corpo e assemblandole insieme ma mancanti dell'anima, con l'obiettivo di liberare l'umanità dalla schiavitù della fatica fisica; i robota si ribellano e schiacciano gli uomini che nel frattempo sono stati sopraffatti dal vizio e dalla pigrizia.
Un termine quindi che evoca il bisogno ancestrale di alleggerire l'umanità dalla fatica trasferendola ad altri, ma con la geniale intuizione di metterla in guardia dai rischi.
Nella stagione del lavoro che cambia per effetto della digitalizzazione e dell'automazione alleggerire gli esseri umani dal peso del lavoro è un concetto molto più vasto e non riguarda soltanto la fatica muscolare. Certo i lavori ripetitivi e le catene di montaggio esistono ancora ma ragionare sui tempi di saturazione della prestazione impone una riflessione che deve allargare molto il campo visivo.
Non è certo una novità che la produttività individuale ha una curva inversamente proporzionale allo scorrere del tempo e la tecnologia, per quanto instancabile, può esserci d'aiuto ma solo fino a un certo punto.
L'agenda digitale italiana che prende il nome di industria 4.0 (ora impresa 4.0), termine coniato alla fiera industriale tedesca di Hannover nel 2011, interviene solo in parte sull'argomento incentivando le imprese a investire su macchinari di nuova generazione facendo leva sugli enormi benefici fiscali messi a disposizione.
Stimolare le imprese a investire nell'economia reale per rinnovare un parco macchine affetto da un invecchiamento tecnologico senza precedenti, in alternativa ai prodotti finanziari che hanno dilagato negli ultimi due decenni, è senza dubbio una misura utile per recuperare in efficienza e produttività.
D'altra parte le politiche neo liberiste adottate fino ad oggi e fondate principalmente sulla compressione dei diritti e dei salari sono miseramente fallite lasciando sul campo cinque milioni di poveri, una precarietà diffusa che spesso rasenta la schiavitù e le retribuzioni più basse del mondo occidentale industrializzato al punto che molti sono poveri anche con un lavoro.
Quindi gli umani e le macchine possono lavorare insieme e saranno destinati a farlo ancora per molti anni in una simbiosi straordinaria che li vede impegnati già oggi nella realtà amplificata, nelle mani dell'operaio aumentato con dispositivi e sensori interconnessi tra loro fino all'intervento assistito del chirurgo in sala operatoria, ma anche macchine intelligenti capaci di auto apprendere e di modificare in autonomia i propri comportamenti a seconda delle informazioni che ricevono.
Questa sarà davvero la nuova rivoluzione, le intelligenze artificiali.
Viene in mente una bellissima e significativa pubblicità di automobili che rappresentava una coppia dal concessionario intenta a scegliere il colore del modello mentre, in tempo reale, un robot in capo al mondo cambiava rapidamente il colore dello spruzzo sul telaio grezzo; sembra una banale metafora ma invece ci consegna la misura delle reali possibilità offerte dalle tecnologie che non sono il frutto della brillante fantasia di un pubblicitario.
Sono tutte possibilità che tuttavia presentano un conto sociale; infatti tra i lavoratori addetti alle nuove mansioni si manifestano patologie “sconosciute” legate principalmente allo stress e se consideriamo, come ci dicono gli esperti, che ai nostri figli toccheranno attività che oggi non conosciamo per la metà dei casi, diventerà necessario un nuovo approccio che affronti le condizioni di vita e di lavoro, dobbiamo guardare il problema da un altro punto di vista.
Sperimentare modelli di organizzazione innovativi improntati sulla riduzione degli orari è necessario e può persino consentire di ottenere risultati migliori anche dal punto di vista dell'efficacia della singola prestazione, cioè della produttività.
Lavorare meglio continuerà ad essere l'obiettivo comune dei lavoratori e dell'impresa ma a condizione di riconoscere che la partecipazione e i conseguenti processi democratici non sono banalmente degli strumenti utili ma, viceversa, concorrono davvero a creare un valore aggiunto.
In questa questa logica i maggiori profitti conseguenti alle scelte fatte insieme dovranno essere destinati a migliorare le condizioni della vita collettiva compresa la riduzione dell'orario di lavoro e il diritto al tempo libero.