Bologna. “Sindacato deriva dal greco syndaké, che significa ‘insieme per la giustizia’”. Si apre così “Tempi (retro) moderni”, il libro di Francesca Re David, edito da Jaca Book, frutto di una lunga conversazione con il sociologo Lelio Demichelis, in cui la segretaria della Fiom si interroga sul ruolo del sindacato nel mondo della industria 4.0 e del capitalismo delle piattaforme.
Ne è uscita una riflessione a tutto tondo, che comprende l’ascesa del neoliberismo, l’evoluzione tecnologica e, soprattutto, le conseguenze di questo combinato disposto in termini di diritti per i lavoratori. Conseguenze non particolarmente positive, come il titolo del libro lascia supporre. Ma andiamo con ordine.
Come sosteneva Nanni Moretti in uno dei suoi film più famosi, le parole sono importanti. Proprio per questo motivo ogni riflessione che si rispetti non può che partire dall’etimologia, l’origine delle parole.
Insieme per la giustizia, dicevamo. Se mettiamo assieme “insieme per la giustizia” e “tempi retro-moderni” ci accorgiamo subito che qualcosa non torna. Non torna, secondo Re David, per un motivo molto semplice: negli ultimi 30 anni è stata messa in discussione non soltanto l’azione sindacale, ma addirittura l’idea stessa di sindacato, e del ruolo che questo deve ricoprire nella società. Pertanto si è verificato un arretramento sui diritti dei lavoratori.
Nel mondo retro-moderno, quello della fabbrica-rete, il lavoratore dipendente non ha più la possibilità né la volontà di riconoscersi in un insieme, a causa di alcuni cambiamenti strutturali. Punto primo, non esiste più un singolo luogo di lavoro. Punto secondo, non esistono più distinzioni tra lavoro e tempo libero. Infine, non esiste più nemmeno il lavoratore subordinato, perché è lui stesso a non percepirsi come tale. Nel frattempo infatti è diventato l’“imprenditore di sé stesso”, non più in lotta con il capitale, ma in competizione con i suoi pari.
L’esempio più immediato è quello dei riders, i fattorini che suonano al citofono con la pizza in mano, ma vale per tutti i lavoratori del capitalismo delle piattaforme, nel quale si ha l’illusione di essere padroni del proprio tempo (lavora quando vuoi) e dei mezzi di produzione (la bici), quando il vero potere lo detiene la piattaforma, o meglio chi sta dietro alla piattaforma. Nel modello, Foodora, sebbene il discorso valga per tutte le piattaforme.
D’altra parte, se la situazione nella fabbrica-rete appare decisamente complicata, purtroppo anche negli avamposti del capitalismo “tradizionale” le cose non sono andate per il verso giusto. Anche in questo frangente lo sviluppo tecnologico ha rappresentato una sfida per i lavoratori, specie per quelli che sono passati dall’avere delle “conoscenze” sui mezzi di produzione a delle “competenze” riguardo le funzioni degli stessi. Ma il cambiamento principale si è registrato a livello normativo.
Dal pacchetto Treu al Jobs Act, la parola chiave è stata “flessibilità”. Presentata come un’opportunità per i lavoratori dipendenti, spesso si è rivelata esserlo in modo particolare per i datori di lavoro. E il fatto che le due riforme siano state portate avanti da due governi di centro-sinistra ha sicuramente finito per confonderli. Anzi, diciamo proprio che, unitamente a un certo atteggiamento nei confronti dei lavoratori e del sindacato, ha contribuito a legittimare da una parte l’inganno di Casaleggio sul superamento delle differenze tra sinistra e destra, dall’altra la narrazione che vede il Pd sempre più come il partito delle élite.
Tuttavia sarebbe sbagliato scaricare tutta la responsabilità ai partiti politici. La segretaria della Fiom ammette infatti anche gli errori dei sindacati, colpevoli per non avere fatto abbastanza -“avremmo dovuto protestare con forza contro la Fornero”- e per non essere riusciti a proporre una visione della società al passo coi tempi. Per non essere riusciti a imporsi come i soggetti che riuniscono i lavoratori in nome della giustizia sociale.
In ultima istanza, per non avere rivendicato a sufficienza le proprie origini.
Ecco perché i sindacati devono ripartire proprio da lì, dal syndaké con cui si apre il libro.
Le parole sono importanti.
(Alberto Pedrielli)