Sulle prime ho ritenuto che il mio inglese fosse definitivamente andato giù per le scale di cantina. Armato di pazienza ho riletto un po’ qua e un po’ là: non mi era sbagliato. Cose da non credere. Sulla prima pagina del New York Times trovano spazio parole di non poco peso che sconfessano la culla stessa del neo-liberismo più sfrenato: la redditività delle azioni non è “il tutto”! Sarebbe come dire che la remunerazione del capitale investito non è più l’obiettivo finale del sistema. In un paese che vede la ricchezza ultimo, solo e agognato desiderio parole simili ostentano un sapore di bestemmia.
E non è tutto. A seguire, un attacco decisamente pesante ai grandi CEO, gli uomini fino a poco tempo fa osannati e indicati quali terminali del successo e della ricchezza: “Basta con questi emolumenti miliardari! Stop a questo sistema di indicizzazione della produzione e della redditività a breve e brevissimo termine! Occorre acquisire una lungimiranza non fissata sulla rendita certa e subito, ma disporre di un progetto a più lungo termine che abbia (questa me la sono riletta più e più volte!) obiettivi indirizzati verso un benessere maggiormente diffuso.
Mi sono fermato nella lettura e ho osservato il titolo, come d’uso centrale nella pagina, composto con caratteri dall’aspetto “gotico” che stavano mutando verso una nuova forma e una sostanza diametralmente diversa, una sostanza dal sapore antico e oramai (giustamente) cancellato dal tempo, una sostanza e un sapore che ricordava “La Pravda” di inizio secolo scorso. Dopo aver cancellato questi pensieri osceni, ho proseguito nella lettura della parte dell’articolo che, abbandonate le parole ridondanti, affrontava il concetto riprendendolo con temi e indicazioni meno specialistiche e maggiormente comprensibili. “Occorre che il sistema e la produzione industriale (e quindi la redditività del sistema) sia maggiormente tesa al raggiungimento di un benessere il più possibile diffuso”.
Dunque, tirando le somme, anche lo “Yorker” inizia ad intravvedere il grande peccato del sistema e cerca di individuare le grandi pecche del liberismo: molta ricchezza e pochi destinatari. Chissà se il biondissimo Presidente americano troverà tempo per leggere la pagina del più importante e diffuso giornale della sua paese e se riuscirà ad individuarne il non troppo celato messaggio: “Caro Trump, non è con pesanti dazi imposti che risolverai il problema della crescita modesta (ma particolarmente incerta in ben precise fasce di generazione), e neppure individuando nella crescente potenza economica cinese l’obiettivo da distruggere, e men che mai inondando di liquidità il mondo della produzione (Ah!” quegli ingrati birichini della Federal Reserve con i cordoni della borsa un po’ chiusi!) se lo stesso non sarà in grado di generare benessere diffuso”: il commento su-riportato rappresenta il succo del “pezzo” e ripropone, quale unica cura possibile di un mondo malato, una più equa distribuzione della ricchezza prodotta. Si è raggiunto il punto, più e più volte descritto da valenti economisti, dove la ricchezza prodotta dal sistema non trova mercato in assenza di possibilità di acquisto da parte del consumatore, non per mancanza di bisogno, ma per scarsa o nulla possibilità di acquisto per mancanza di liquidità. Perfettamente inutile produrre migliaia di prodotti se poi solo pochi abbienti dispongono della possibilità liquida di acquisto.
Concludendo, cose da non credere, sulla prima pagina del “Yorker” (o se preferite N. Y. Times), una solida lezione di socialismo reale, la descrizione di una crepa nel limpido cristallo del sistema “Americano” che ha generato un’immensa quantità di ricchezza, finendo per raggrupparla in poche mani: molte delle restanti mani non hanno più disponibilità per l’acquisto e non basta elevare fittiziamente i prezzi dei beni della concorrenza (leggi “dazio”) per rinvigorire il mercato, ma occorre creare una migliore diffusione della ricchezza. Chissà se Luigi Di Maio, Salvini, Zingaretti sanno di inglese: gli proponiamo una sana lettura?
(Mauro Magnani)