Il Cile continua a parlarci, a stimolarci, a coinvolgerci. Lo fece agli inizi degli anni ’70 con l’esperimento democratico del socialista Allende, il sanguinoso golpe del generale Pinochet orchestrato dalla Cia (entrambi gli avvenimenti suggerirono diverse considerazioni all’interno della sinistra italiana, tra cui il tentativo di “compromesso storico” di Berlinguer) e poi ancora con gli esuli, circa 200.000 persone che trovarono nel mondo e in Italia – e specialmente in Emilia Romagna (come sottolineato anche da Nanni Moretti nel suo recente documentario “Santiago, Italia“) una solidarietà che oggi, spaventati come siamo da nuovi fenomeni migratori, ci appare incredibile.
Ma fra le mobilitazioni e le repressioni di oggi e quegli eventi di quasi mezzo secolo fa c’è una stretta correlazione, e questa è un’altra cosa che il Cile vuole comunicare, a noi e al resto del mondo. Ma per capirla dobbiamo tornare al 1973.
Gli Usa non consegnarono il popolo cileno soltanto a una feroce dittatura militare: a questa affiancarono un team di giovani economisti della scuola di Chicago, guidata dall’esimio premio Nobel Milton Friedman. Scienziati senza laboratori, gli economisti con i loro complessi modelli matematici non possono neanche lontanamente simulare la realtà, perché l’economia è una scienza sociale. I “Chicago Boys” ebbero a disposizione un vero laboratorio: la società cilena. Fautori di un neoliberismo selvaggio, non vedevano l’ora di mettere in pratica le loro ricette di tagli indiscriminati alla corposa spesa sociale e all’assistenzialismo che caratterizzavano il mondo occidentale dalla fine del secondo conflitto mondiale. Queste erano basate sulle ricette riformiste e keynesiane che, sotto varie declinazioni politiche, venivano applicate nei paesi occidentali (anche per la preoccupazione dei governanti di fronte alla concorrenza sovietica).
Per il Cile cominciarono così anni di contenimento dei salari e deregolamentazione del mercato del lavoro, di privatizzazioni dell’economia nazionale a favore delle multinazionali (in prima fila quelle statunitensi) e di apertura al mercato mondiale, di conti statali in ordine grazie anche alla famosa regola “aurea” del rapporto deficit/Pil entro il 3%. Nel decennio successivo Reagan e Thatcher furono i portabandiera del neoliberismo, con lo slogan “meno Stato e più mercato” che si estese nel mondo occidentale a macchia d’olio, fino a trionfare definitivamente con il crollo dell’Unione Sovietica, evento che toglieva forza agli ultimi sostenitori dello Stato sociale.
Con il nuovo millennio il Cile ritornò ad avere un presidente socialista, Ricardo Lagos, seguito da Michelle Bachelet, che segnarono un’egemonia da parte dei socialisti quasi ininterrotta dal 2000 al 2018. Soprattutto la Bachelet, prima donna a ricoprire la carica di Presidente del Cile, riscaldò i cuori degli osservatori che vedevano nuovamente la sinistra al governo in Cile e in altri paesi dell’America Latina, dopo decenni in cui le dittature avevano disastrato quel subcontinente.
L’amara verità è che pur conseguendo la piena transizione alla democrazia e il ritorno ad una società civile dotata dei diritti politici e civili, quell’egemonia socialista non riuscì a scalfire la politica economica, che i cileni avevano visto realizzare dai Chicago Boys, né la spaventosa disuguaglianza sociale che tale politica economica aveva prodotto, in assenza dei meccanismi redistributivi che caratterizzavano il vecchio Stato sociale e assistenziale.
Il Cile aveva conosciuto una crescita economica stabile e senza precedenti: una media del 3,6% di crescita annua del Pil dal 2009 ad oggi, (con punte del 10-11% negli anni ’90) e un’inflazione sempre al di sotto del 5% dal 2000 (dato quest’ultimo più unico che raro in Amercia Latina). Però a trarne vantaggio è stata però solo una minoranza della popolazione. Del resto, che cosa si poteva chiedere ai socialisti cileni se anche nel resto del mondo la sinistra aveva subito una profonda trasformazione adattandosi alla politica economica trionfante?
Gli alfieri della “nuova sinistra” degli anni ’90, Clinton e Blair, apparivano più interessati ai conti statali in ordine e ai risultati della finanza che al benessere diffuso della popolazione. E quando in Italia il primo segretario del Pd Veltroni indicò in Bob Kennedy il suo personaggio politico di riferimento, era chiaro già da tempo che la sinistra europea non aveva intenzione di mettere mano ad un modello economico ormai consolidato in quasi ogni angolo del mondo a partire proprio da quel primo esperimento cileno. Eppure persino lo stesso capitalismo sarebbe più equilibrato e in salute con una società più equa, perché le economie nazionali e sovranazionali potrebbero contare su una solida domanda interna senza dover dipendere eccessivamente dalle esportazioni, soggette alle incertezze della competizione globale e di un commercio mondiale oggi in drastica diminuzione.
I cileni che oggi manifestano e protestano – provocati dalla goccia che fa traboccare il vaso versata da un governo di destra – e sono ancora vittime di una durissima risposta militare, ci mandano un messaggio chiaro: non possiamo arrenderci a un mondo in cui l’economia mondiale ha fatto passi da gigante anche dopo la crisi del 2008 (in Itala la questione è un po’ diversa…) mentre la società sta tornando verso disuguaglianze e sperequazioni che ci ricordano i tempi in cui i movimenti operai e socialisti dovevano ancora nascere.
(Roberto Zani)