All’inizio del Novecento, Bologna sembrava una città inespugnabile per lo squadrismo fascista. Molte erano le ragioni per cui la maggioranza dei bolognesi militava a sinistra. Intanto le tradizioni popolari: il suo proletariato urbano seguì (caso forse unico in Italia) il nuovo verbo dei giacobini – intellettuali borghesi e aristocratici – dopo l’arrivo della prima spedizione francese del 1796 (1). Nell’Ottocento i bolognesi avevano dato un forte contributo alla causa risorgimentale (la cacciata degli austriaci l’8 agosto del 1848 e non solo). Poi si lasciarono influenzare molto presto dall’azione di Andrea Costa: nel 1874 Bologna fu il centro del tentativo insurrezionale organizzato dall’imolese e dall’agitatore anarchico Michail Bakunin.

(Foto Wikipedia)

Più di recente, l’amministrazione del sindaco socialista Francesco Zanardi istituì l’Ente (comunale) Autonomo dei Consumi, che annoverava un grande panificio (sito nell’attuale sede del MAMbo) e una catena di negozi dove si vendevano generi di prima necessità a prezzi calmierati durante il primo conflitto mondiale e nel difficile dopoguerra agitato dai “moti del caro vita” (alla direzione dell’ente c’era un altro socialista imolese, il riformista Romeo Galli). Tali misure diedero un’enorme popolarità ai socialisti e a Zanardi che fu chiamato “il sindaco del pane”.

Durante il “Biennio Rosso” (fine 1919 – 1910) nelle campagne della provincia scoppiarono durissime agitazioni: una contrapposizione tra i braccianti della Federterra (l’organizzazione più combattiva della CGdL), i proprietari agricoli e i coloni, e che vide la mobilitazione delle squadre fasciste ingaggiate dagli agrari. Il risultato nell’ottobre 1920 fu il cosiddetto “concordato Paglia – Calda”, che sanciva la vittoria dei braccianti e migliori condizioni per coloni e mezzadri; ma gli agrari non si diedero per vinti e continuarono a mobilitare i fascisti.

Tornando a Bologna, il 31 ottobre 1920 si tennero le elezioni comunali che i socialisti stravinsero con il 58% dei voti; il candidato Ennio Gnudi si preparava così a prendere il posto di Zanardi.
Ma la città non aveva solo tradizioni di sinistra: nei secoli precedenti era infatti chiamata “la seconda capitale dello Stato della Chiesa”: la sua aristocrazia, che coincideva in parte con gli agrari sconfitti, era rimasta su posizioni particolarmente reazionarie, come anche gli ambienti cattolici e larghi stradi della borghesia.

Arriviamo così ai fatti che precedono la strage. In quei mesi di dura contrapposizione l’anima nera della città si coalizzò: fu così che anche tra alcuni esponenti liberali e il Partito Popolare cittadino si era fatta strada l’opzione della violenza per contrastare l’arrivo di una nuova amministrazione socialista. La campagna elettorale fu infatti funestata da violenze tra le varie parti politiche. Soprattutto, dopo le elezioni i fascisti coordinarono le loro squadre operative in città (guidate dal ras Leandro Arpinati) e nelle campagne a scopo intimidatorio, tra l’indifferenza e la compiacenza della questura e della prefettura.

Il 4 novembre (anniversario della Vittoria) i fascisti assaltarono la Camera del Lavoro, difesa soprattutto dai socialisti imolesi appartenenti alla neonata frazione comunista che aveva deciso di potenziare le Guardie Rosse (la struttura armata di cui si era dotata il Psi). La difesa venne vanificata da un dirigente socialista che telefonò ai carabinieri, i quali arrestarono le Guardie Rosse e abbandonarono la Camera del Lavoro alle devastazioni dei fascisti. Nella giornata seguente molti lavoratori bolognesi scioperarono, ma i rapporti di forza usciti dalle elezioni stavano per essere sovvertiti.

Palazzo D’Accursio a Bologna (Foto Giovanni Dall’Orto)

Il 21 novembre, giorno dell’insediamento ufficiale della giunta socialista, sulla torre degli Asinelli e dai balconi del Palazzo d’Accursio (sede del Comune di Bologna) sventolavano le bandiere rosse; la folla cominciò ad acclamare il sindaco Gnudi che si affacciava dal balcone, ma in quel momento si mossero le squadre dei fascisti e dei nazionalisti. La bandiera rossa sulla Torre degli Asinelli venne abbattuta e le squadracce cominciarono ad esplodere alcuni colpi pistola nelle vie circostanti la piazza del Nettuno, gremita dai socialisti festanti. Nel caos spararono anche i carabinieri e le guardie regie e caddero i primi morti e feriti. Parte della folla si rifugiò nel cortile del palazzo ma le Guardie Rosse che stavano nelle finestre soprastanti, scambiandoli per fascisti, lanciarono su di essa alcune bombe a mano: alla fine si contarono in tutto dieci morti (tutti socialisti) e una sessantina di feriti. Intanto, anche all’interno del palazzo, ci fu una sparatoria nel consiglio comunale in cui rimase ucciso il consigliere Giulio Giordani: pur essendo un liberale, i fascisti ne fecero un loro martire e lo celebrarono nei funerali e nei giorni successivi come un camerata e un eroe nazionale.

Dino Grandi (Foto Wikipedia)

La strage diede il pretesto al governo per sciogliere il neonato consiglio comunale e commissariare il Comune di Bologna. Così la città cadde in mano ai fascisti: divenne così la base principale dalla quale partivano le spedizioni nelle campagne per impedire l’applicazione del “concordato Paglia – Calda” e per la conquista degli altri centri della provincia.

Dino Grandi era scampato pochi giorni prima a Imola a un attentato, probabilmente ad opera di elementi anarchici. Aderì ufficialmente al fascismo subito dopo i fatti di Palazzo D’Accursio, portando in dote l’adesione dei piccoli proprietari della bassa imolese, e dichiarò che Bologna era la prima grande città a diventare fascista. L’affermazione mandò su tutte le furie Mussolini che rivendicò la supremazia del Fascio di combattimento di Milano, dove il movimento era nato. Ma effettivamente il capoluogo lombardo, alla fine del 1920, non era ancora caduta in mano ai fascisti.

(1). Valerio Evangelisti, Gli sbirri alla lanterna. La plebe giacobina bolognese (1792 – 1797). DeriveApprodi, Modena, 2005.

(Roberto Zani)