La clausura forzata di questi giorni ha i suoi pro e i suoi contro. Un aspetto positivo è senz’altro che l’epidemia ha costretto i cittadini a rivedere la propria scala dei valori rimettendo al primo posto l’importanza della salute, della propria e di quella collettiva ma, soprattutto, ha permesso di rivalutare l’importanza del nostro Servizio sanitario pubblico scoprendo che è uno dei sistemi migliori del mondo e che va difeso a tutti i costi.

E a sentire i commenti per televisione o sui social sembrano così lontane le tante legislature che operavano lo scempio dei tagli alla sanità che, nella pressoché indifferenza generale tranne la costante denuncia dei sindacati e la Cgil in particolare, hanno devastato per anni il nostro sistema universale malgrado i ripetuti moniti dell’Oms sui rischi che correva l’Italia a ridurre l’impegno economico in rapporto al Pil.

Anche il modello lombardo costruito dal tangentista celeste, condannato in via definitiva, che ha dirottato (e regalato) per un ventennio fiumi di soldi alla sanità privata alla prova dei fatti si è dimostrato inadatto e classista di fronte al bisogno generalizzato di cure.

Con il Covid-19 si è realizzata una presa di coscienza collettiva che nemmeno la crisi del 2009 era riuscita a mettere in moto, impegnati come si era nella spasmodica e comprensibile (ma non condivisibile) corsa per difendere se stessi, il posto di lavoro, il reddito, la propria famiglia e in alcuni casi la sopravvivenza stessa.

Una coscienza collettiva che parte da un assunto di fondo che ci dice che da questa situazione ne usciremo ma solo tutti insieme, nel quale il comportamento dei singoli riverbera inevitabilmente i suoi ha effetti su tutta la società, sia quelli positivi sia quelli negativi.

Il fatto che i cittadini hanno maturato questa consapevolezza mi sembra già una grande novità visto l’individualismo dilagante degli ultimi tempi.

Crisi dovuta al coronavirus

Come contraltare invece si sono scatenati i soliti negazionisti e i complottisti, cioè tutte quelle simpatiche persone che, nella paura generale, cercano una nicchia di eccezionale visibilità e, siccome fondamentalmente non hanno nulla da dire, sfrugugliano nelle viscere dell’essere umano alla ricerca di improbabili risposte catastrofiche, come se già non bastasse l’emergenza e la stupidità di alcuni nostri concittadini.

Di questa bella brigata fanno parte anche alcuni commentatori televisivi e della carta stampata che sfruttano la pandemia globale per rilanciare il mantra, a mio parere devastante, della decrescita felice.

Certo, l’aria pulita ci piace a tutti, poche automobili in circolazione, con un po’ di pazienza a breve spegneremo anche il riscaldamento nelle case, sono quasi azzerati i voli aerei e stiamo chiudendo anche le fabbriche, cosa c’è di meglio che restituire alla natura, a noi stessi e a chi verrà dopo un mondo più pulito e un’aria più respirabile? Personalmente sottoscrivo.

Ma purtroppo penso che la decrescita felice non esista proprio come una possibilità reale, esiste solo un grande rischio di averne una infelice, molto infelice, e temo che in generale non siamo abbastanza consapevoli delle conseguenze.
Tra meno di un mese arriveranno i primi conti da pagare e tireremo le somme di quanto ci è costato il primo parziale periodo di fermo quasi totale e di astensione dal lavoro, ma purtroppo il peggio deve ancora arrivare non sapendo quanto durerà.

In economia è la globalizzazione ad essere sotto scacco, il vero grande fenomeno del ventunesimo secolo è colpito nel suo punto più debole ossia quello della catena del valore aggiunto e le frontiere chiuse apriranno non pochi interrogativi sul futuro post emergenziale.

Il virus come sappiamo non attacca i capitali ma le persone (e indirettamente le merci), se i primi fuggono i secondi restano e chiedono di essere protetti.
Se la vogliamo guardare in termini di capitali complessivi l’altalena delle borse non è certamente un indicatore che ci aiuta a capire molto mentre sarebbe più utile, ma serve più tempo, avere a disposizione il dato economico delle entrate dello stato per misurare l’intensità negativa di questa nuova crisi inoltre, come abbiamo già visto, è noto con quanta semplicità i capitali sfuggono ai sistemi fiscali degli stati, figuriamoci in una situazione di emergenza.

Il nostro è un Paese che già prima era vittima di grandi “distrazioni”, tra evasione e corruzione, questa frenata non farà altro che peggiorare i conti traballanti e temo che, come al solito, a pagare il conto saranno ancora una volta i più deboli.

La domanda che dovremmo finalmente porci seriamente è come trovare un nuovo equilibrio tra i bisogni della società, che oggi rivaluta finalmente la scala dei valori, e la distribuzione della ricchezza prodotta (globalmente se possibile) con la consapevolezza della dimensione sovranazionale di tutta la partita e la risposta all’emergenza non può essere quella di aumentare i debiti pubblici dei singoli stati perché alla fine della fiera saremo davvero tutti molto più poveri.

C’è quindi un grande bisogno di progettualità distinguendo in modo netto da quale parte si vuole stare, quali sono i riferimenti valoriali, dall’azzeramento delle diseguaglianze allo Stato Sociale, dalla crescita sostenibile a una vita dignitosa per tutti.

Se il novecento ha visto la drammatica sconfitta dei modelli socialisti (ma non dell’ideologia socialista che rimane comunque un importante punto di riferimento) è anche vero che il capitalismo liberista ha portato a un insostenibile aumento delle diseguaglianze e delle povertà e all’orizzonte se ne preparano delle nuove.

Servono delle fondamenta sulle quali costruire la casa del futuro, non è necessaria una reggia è sufficiente una casa dignitosa ma soprattutto democratica che abbatta le differenze sociali, una casa aperta che metta al primo posto le responsabilità sociali che tutti noi abbiamo dimostrato di conoscere e di mettere a valore nel momento dell’emergenza.
Una responsabilità sociale delle imprese nei confronti delle comunità nelle quali il profitto deve venire dopo avere assolto ai propri obblighi (perfino i manager del nuovo secolo l’hanno capito).
Imprese che devono stare sui mercati e ricavare il massimo valore aggiunto ma che siano impegnate statutariamente a fare della mutualità la propria missione sociale.

Su questo terreno dovremmo dedicare più tempo al confronto delle idee, non l’abbiamo fatto con l’esplosione della crisi speculativa, forse questa è la nuova (anche se peggiore) occasione che si presenta e dobbiamo coglierla con tutti dubbi e le perplessità.

Ma di una cosa sono sicuro che quando ne usciremo abbiamo l’obbligo di essere più esigenti, più rigorosi e meno creduloni nei confronti dei santoni di turno, dobbiamo fare crescere il nostro impegno civico e imparare a scegliere i nostri rappresentanti, pretendere da loro un grande rigore e un’etica che per troppo tempo ci è sembrata quasi inutile ma che oggi penso sia proprio necessaria.

(Paolo Stefani)