Ho letto, di recente, un bell’articolo di Annamaria Testa, una dei più intelligenti esperti di comunicazione italiani. Ci ricorda che, specie in tempi difficili, dovremmo sforzarci di usare parole esatte e di chiamare le cose con il loro nome. I termini che scegliamo per nominare e descrivere i fenomeni possono aiutarci a capirli meglio, quindi a governarli più efficacemente. Quando però scegliamo parole imprecise o distorte, la comprensione rischia di essere fuorviata: e – di conseguenza – ne sono sviati i sentimenti, le decisioni e le azioni che ne conseguono.
In un eccellente articolo uscito su “Internazionale” pochi giorni fa, ci si sofferma sul fatto che “l’emergenza Covid-19 è quasi ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra”. Però “trattare una malattia come fosse una guerra ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate”. E conclude affermando che la metafora del paese in guerra è rischiosa nell’emergenza che stiamo vivendo perché “parlare di guerra, d’invasione e di eroismo, con un lessico bellico ancora ottocentesco, ci allontana dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne”. L’automatismo della metafora bellica è troppo persistente e diffuso per essere ridotto a pura sciatteria lessicale.
Lo psichiatra Luigi Cancrini ribadisce concetti analoghi in un’intervista a Repubblica: “La guerra è il tempo dell’odio. In guerra per sopravvivere si è costretti a uccidere l’altro”, dice. “Invece questo di oggi è il tempo della vicinanza e della solidarietà”.
E il sociologo Fabrizio Battistelli, su Micromega, dopo aver meticolosamente elencato una quantità di metafore belliche usate sia da politici sia da esperti, sottolinea che “è sbagliato mettere sullo stesso piano due fenomeni – l’epidemia e la guerra – la cui essenza è diversa. Ciò emerge nelle due distinte azioni del contrasto e della prevenzione. Mentre nel contrasto epidemia e guerra hanno vari punti di contatto, l’azione di prevenzione è diversa e per molti versi opposta”.
Non è una guerra ed è pericoloso pensare che lo sia perché in questa cornice risultano legittimate derive autoritarie: vedi quanto successo ieri in Ungheria con poteri quasi assoluti assegnati al Presidente Orban.
Conseguenza: si ragiona e si investe molto più secondo logiche nazionalistiche e di conflitto, che secondo logiche universalistiche e per prevenire rischi globali.
Di fatto, scrive Matteo Pascoletti su Valigia Blu, “il gergo militaresco e l’insistente visione bellica non aiutano ad affrontare l’emergenza da un punto di vista psicologico e cognitivo, e se non ci aiutano come individui, di certo non ci aiutano come società”.
Pandemia. Pericolo globale. Tragedia collettiva. Difficile emergenza (come dice il presidente Mattarella). Tempesta che smaschera le nostre false sicurezze (come affermato da papa Bergoglio).
Ciò che riguarda il Covid-19 è tutto questo, ma non è una “guerra”.
Non è un conflitto e dunque è tremendo e inaccettabile che per “combatterla” muoiano medici e infermieri: non sono “soldati” da mandare in “battaglia”, pronti a compiere un “sacrificio”. Usare l’idea della guerra per implicare, insieme all’eroismo, l’ineluttabilità del “sacrificio” è disonesto e indegno.
L’emergenza ci chiede, invece, non solo di progettare cambiamenti sostanziali, ma di ridiscutere interamente la nostra gerarchia dei valori e il nostro modo di pensare, dando più spazio alla solidarietà e alla compassione.
Prima cominciamo, meglio è. Anche per pensare ad un “dopo” migliore del “prima”.
(Tiziano Conti)