Nell’attuale situazione, pesante crisi sanitaria con annessa crisi economica, le notizie riguardanti la solidarietà tra gli uomini portano una dolce boccata di ossigeno al nostro pessimismo di reclusi. Non passa giorno senza che almeno una notizia riguardante la solidarietà ci raggiunga riguardante iniziative che, a volte, ci portano fino alla commozione. Sempre più spesso ci raggiungono immagini o righe scritte che ci illustrano come siano gli stessi pesantemente colpiti dalle avversità che ritrovano energia, coraggio e sacrificio verso chi è stato colpito ancora più pesantemente dalla sorte avversa.
Ho avuto modo, tanti anni fa, di riscontrare un sistema di solidarietà generato non da un fattore improvviso di necessità o di carestia, ma da una forma di vita che “impone” la solidarietà e ciò avviene quando la situazione di difficoltà risulta essere endemica, persistente, quasi naturale. Allora, l’uomo riesce a trovare dentro di sé quel bisogno di condivisione che troppo spesso ci sfugge impegnati come siamo nella ricerca della individualistica ricerca di soddisfazione dei bisogni, quando poi, in caduta libera, i bisogni non vengono indotti da un sistema sociale ed economico che non ci fa onore.
All’inizio degli anni ottanta del secolo scorso, mi trovavo a trascorrere alcuni giorni di ferie in un campeggio a pochi chilometri da Gallipoli: un angolo di quiete non ancora turbato dall’invasione del turismo di massa con un mare limpido e particolarmente adatto, per le rive poco profonde, ai bimbi di pochi anni. Mia figlia, Giulia, aveva da poco compiuto i quattro anni e trascorreva le giornate nel bagna- asciuga costruendo, con la sabbia, miriadi di castelli, grotte e profonde buche. In questo modo, mia moglie ed io riuscivamo a concederci qualche ora di quieto riposo a pochi metri da lei.
In una di queste pause di quiete mi incamminai lungo la riva del mare verso la cittadina: si scorgeva non lontana, verso sud. Dopo poco giunsi a ridosso del promontorio, in parte fortificato e difeso da poderose mura sul quale sorgeva la cittadina di Gallipoli. Ovviamente si trattava della “vecchia” Gallipoli: poco lontano, sulla pianura adiacente, la nuova città si era sviluppata in un groviglio rumoroso e sconcertante di nuove costruzioni nella forma di condomini a più piani.
Oltrepassai il ponte e, transitando sotto l’arco della porta carrareccia, entrai all’interno del vecchio borgo: un groviglio di vicoli strettissimi, fiancheggiati in prevalenza da muri bianchi e sormontati da lunghe fila di biancheria stesa ad asciugare. Lunghe fila di botteghe di ogni genere ai lati, alcune decisamente caratteristiche.
Mi attirò quello che sembrava l’ingresso di una bottega artigiana sormontato da un’insegna che il tempo aveva reso illeggibile: l’interno, come spesso accade in quei luoghi, consisteva in una parte in muratura parzialmente intonacata e imbiancata, mentre il fondo risultava scavato nell’arenaria e si perdeva nel buio. Seduto su una vecchia sedia impagliata, un vecchio dall’aspetto di persona distinta, era intento a costruire, utilizzando rametti di un legno quasi bianco, quello che, a prima vista, mi sembrò un cesto o qualcosa di simile.
Più tardi, conversando con l’occupante, appresi che si trattava di “nasse“: una sorta di inganni per la cattura delle aragoste o di altri grossi crostacei e pesci. Lo osservavo, intento al lavoro, mentre sceglieva, uno ad uno, i rametti della lunghezza esatta alla bisogna posizionandoli dove occorreva sulla forma che andava mostrandosi sempre più completa legandoli, fra di loro, utilizzando una sorta di spoletta di legno, nella quale era avvolto uno spago sottile color canapa grezza. Mi affascinava la velocità del suo lavorare e la sicurezza con la quale procedeva nel lavoro: mi trovavo davanti a uno di quei artigiani che eseguono lo stesso lavoro da tanti anni ed hanno acquisito una pratica tale da riuscire a procedere quasi ad occhi chiusi.
Ero talmente preso dal suo lavoro che mi sorprese il suo saluto e l’invito ad entrare nel suo laboratorio. Parlava, stranamente, un italiano decisamente corretto e preciso, con una unica inflessione squisitamente locale. Mi introdussi, ringraziandolo e chiedendo scusa per il mio fare curioso, motivato dal fatto che, raramente, mi era stato possibile assistere ad una manualità tanto abile e precisa.
Mi guardò sorridendo e scoprii due occhi grigi e profondi: il suo viso, lo scoprivo solo ora, assicurava tranquillità e saggezza, quel tipo di saggezza che deriva dalla conquista di un equilibrio interiore. Fu allora che mi disse della sua attività di costruttore di nasse, Nasse come si facevano una volta (lui mi specificò che si trattava di articoli con la “N” maiuscola) e che oggi quasi solo lui continuava a produrre. Mi trovai a chiedere se riusciva a venderle e se vi era quindi un mercato di quegli articoli. Mise da parte il pezzo in costruzione e mi fissò a lungo senza proferire parola fino a farmi sentire quasi in imbarazzo causa una domanda indiscreta.
Poi sorrise mostrando una perfetta fila di denti bianchi e sani affermando che non si trattava di lavoro, ma di una catena. Scossi il capo evidenziando che non avevo compreso e lui, sempre sorridendo mi spiegò in cosa consisteva la “catena“. Mi disse che, all’oggi, le nasse venivano costruite in ferro e zinco, con inganni di rete metallica terminanti con punte aguzze per far si che il pesce, una volta entrato, non riuscisse più ad uscire. “Ma quelle costano assai, affermò, e chi se le può permettere?”.
“Le catture erano sempre più scarse e i vecchi pescatori locali non potevano permettersele , così era nata la catena – mi raccontò -. Quelle che vede qui, durano un po’ meno di quelle in metallo, causa l’acqua salata e il sole che le asciuga, ma vengono a costare… un po’ meno. Vede, mio signore, tutto può incominciare dal fatto che io sono molto vecchio e che non so fare altro; ho fatto nasse da quando ero ragazzo, legando assieme legno di vischio e refe di canapa. Mi passo il tempo qua nella mia mezza grotta e mi rendo utile. Tra poco, se resta, passa il ragazzo che è andato a raccogliere il fascio di punte e me le lascia fuori dalla bottega se, per caso, sono già andato a casa. Altri vecchi come e più di me le hanno messe insieme (disse proprio così) e lui me le porta. Io faccio le nasse e le do ai vecchi pescatori che, di notte, le calano nei posti che solo loro conoscono: tentano alle rare aragoste, qualche scorfano ingordo, il branzino se c’è e pure il grongo, ma solo quelli grossi: quelli piccoli mangiano l’esca e se ne escono, terminò in un sorriso. Vede quella casa con i muri giallo vecchio, là in fondo? Sul tetto la signora Donata stende la canapa, le cannarelle, a seccare e quando è tempo le schiaccia, le sfila, le concia, le intreccia e mi procura lo spago: è molto brava! Suo marito è morto in mare e lei riesce a vivere con questo lavoro”.
E io: “Ma c’è ancora chi acquista refe di canapa?”
“Ma no, lei fa parte della catena. I pescatori, quando c’è fortuna, vendono il pesce e distribuiscono l’invenduto a chi, e sono tanti, non ha denaro, per cena. Ogni tanto arriva anche una forma di pane e una bottiglia di vino. Finita la catena. Ma vuole sentirlo il vino? E’ delle parti nostre, sincero”.
Non potei rifiutare un mezzo bicchiere di bianco decisamente povero, aspro e duro, che mi ricordò il fondo di torchio delle parti nostre: conversammo ancora per qualche tempo poi gli chiesi se, l’indomani, potevo passare con la macchina fotografica per prendere qualche immagine del suo lavorare. Assentì di buon grado e mi salutò con una stretta di mano sorprendentemente forte per l’età e la magrezza dell’uomo.
Mi incamminai verso il campeggio pronto a ritornare all’indomani. E così fu. Con la borsa a tracolla piena di macchina e ottiche lo ritrovai esattamente come il giorno prima, ma la quantità di nasse, là sul fondo del laboratorio, era decisamente cresciuta grazie al lavoro della mattinata.
Mi salutò con cordialità e notai che, in qualche modo, si era rassettato: i capelli erano decisamente più in ordine del giorno prima e indossava una camicia di tela grigia con righe più chiare e qualche disegno ad impreziosire, indossata certamente per l’occasione. Lo pregai di portarsi un po’ più avanti, verso la porta: avrei potuto meglio sfruttare la luce riflessa dal muro bianco della casa di fronte. La luce era perfetta e potevo disporre di spazio sufficiente, tutto attorno a me, per scegliere convenientemente la direzione dell’inquadratura.
Mi chiese se poteva mettersi la giacca e risposi che non importava. Contrariamente ad ogni buona regola, produssi solo una decina di scatti: mi sentivo sicuro, stranamente, del risultato. Ci scambiammo, mentre riprendevo, qualche parola e mi stupii che non fosse assolutamente interessato alla mia grossa macchina da ripresa, al cambio delle ottiche e così via, cosa del tutto naturale in queste situazioni. Gli dissi che stavo raccogliendo immagini sui lavori artigiani e che mi proponevo di raccogliere il tutto in un libro che avrei proposto a qualche editore. Mi chiese se mi sarebbe stato possibile fargli pervenire qualche foto stampata e lo rassicurai al riguardo. Lo salutai con una stretta di mano cordiale e sincera, ringraziandolo per la disponibilità e la cortesia. Promisi, in un futuro, di ripassare a salutarlo e a guardarlo ancora intrecciare sottili bacchetti e filo di canapa: mi rispose a modo suo, dimostrandosi uomo di fede; “Solo se Dio vorrà.” Confermai, assecondandolo, che era esattamente così per tutti. Mi sorrise con assenso e riprese il suo lavoro. A catena.
Dopo qualche giorno ritornammo, finite le vacanze, in quel di Imola e immediatamente mi recai in camera oscura per lo sviluppo del negativo (allora si fotografava quasi esclusivamente in B/N ) e scoprii di aver lavorato, in ripresa, decisamente bene: un po’ di fortuna, ogni tanto, non guasta.
Qualche sera dopo stampai le immagini, confermando il risultato decisamente buono grazie alla luce riflessa perfetta e alla bassa presenza di contrasto. Produssi quattro 30/40 per me e altrettanti 24/30 che gli spedii unitamente a quattro righe di ulteriore ringraziamento più qualche complimento.
Dopo pochi giorni ricevetti una lettera da parte della figlia che , unitamente a tutta la famiglia, si dilungava in ringraziamenti e complimenti, aggiungendo, purtroppo la triste notizia dell’improvvisa morte del padre: il nassaio aveva interrotto la “catena” e non avrebbe mai più intrecciato bastoncelli e filo. Si raccomandava, nel caso di stampa del libro fotografico, di spedirgliene una copia, specificando che mi avrebbe coperto di tutte le spese. Precisò che l’immagine a formato pieno da ritratto era stata utilizzata per la lapide: tutti, ma proprio tutti, avevano detto che era bellissima …
La notizia mi rattristò non poco e mi dilungai nel riguardare le stampe in mio possesso: ero riuscito a rubare una serie di immagini all’uomo, all’artigiano, al partecipante alla “catena” pochi giorni prima della sua scomparsa. Come lui disse, Dio aveva voluto così. Mi è rimasto il ricordo di un uomo ricco, di una ricchezza rara e difficile da ottenersi, signore e padrone della sua vita, soddisfatto nell’essere cosciente della sua scelta portata avanti con decisione e a testa alta: sicuramente forzosa, ma dignitosamente accettata e vissuta. Un uomo sereno.
Il libro non prese mai forma: non sono mai andato oltre alla stampa di immagini di altri fotografi. Ho stampato le immagini di Walter Baldoni successivamente raccolte nel libro “Il mestiere artigiano che scompare” e, qualche anno dopo, quelle bellissime di Ermes Ricci, racchiuse nel suo libro intitolato “Il cancello magico”. Le foto di Ermes, un vero fotografo tra le altre cose, che ho realizzato in grande formato, sono state esposte al “Mese della fotografia europea” a Reggio Emilia.
Ogni tanto riguardo le immagini del “nassaio“: una realtà che mi sembra lontana non solo nel tempo: una “catena” perenne, forzata nella realtà di una vita a me lontana e sconosciuta. Quell’uomo, e la sua bottega, assumano la forma di un esempio tutt’ora vivo per chi, fra di noi, raggiunge lo stato di partecipazione solo quando la necessità bussa alla porta. In quel di Gallipoli, in quel vicolo, in quell’antro da artigiano, la necessità e la partecipazione erano l’unica forma di vita possibile. Una forma fatta a mo’ di catena.
(Mauro Magnani)