Durante questi due mesi e mezzo di quarantena tutto, o quasi tutto, intorno a noi si è fermato: una sorta di moviola ha decretato il fermo-immagine e noi ci siamo trovati chiusi all’interno delle nostre abitazioni, una sorta di guscio di protezione, una posizione prudente, una difesa. Tuttavia, come sempre accade, ciò che per alcuni di noi ha assunto le sembianze di recinto di sicurezza, per altri, anzi per altre, si è tramutato in una prigione ancora più claustrofobica, una gabbia dove la violenza ha individuato uno sfogo, un luogo di punizione estrema.
Da un lato gli spiriti deboli dei prepotenti, quelli che trovano giustificazione nella violenza e in essa riscontrano una valvola di sfogo alle proprie frustrazioni (i maschi) e dall’altro quelle che hanno visto allontanarsi, per le ragioni più diverse, quelle già fragili barriere di protezione o quei rifugi in grado di garantire loro una parvenza di sicurezza (le donne).
La drammatica e desolante realtà dei fatti vede undici femminicidi in undici settimane di quarantena: undici fra mariti, compagni, padri, fratelli che hanno sfogato sulle donne a loro vicine la propria impotenza, la propria fragilità e incapacità di vera reazione. Unico facile sfogo la violenza estrema. I centri antiviolenza costretti all’isolamento, le difficoltà oggettive di comunicazioni, la quasi impossibile individuazione di nuovi centri in grado di ospitare la fragilità del pericolo e le purtroppo poche forze disponibili per i controlli o la prevenzione impegnate notte e giorno nel controllo dei nostri movimenti hanno determinato il susseguirsi di questa impressionante catena di omicidi.
Occorre avere il coraggio della verità e la capacità di individuare la vera causa di un simile comportamento che sta assumendo, da tempo, la dimensione di una massa: la difficoltà tutta umana di riuscire a fronteggiare una società e un modo di vivere che non consente ombre o facili nascondigli, il rapido mutare delle situazioni che troppo spesso non concede gli opportuni tempi di maturazione e di assorbimento del mutare e la debole esigenza di apparire risolutori rendono il più forte dal punto di vista fisico il più debole nella reazione e quando la fragilità interna prende il sopravvento l’individuazione del più debole appare come unica soluzione possibile.
Si chiamavano Marisa, Alessandra, Zsuzsanna, Maria Angela, Viviana, Bruna, Luisa, Barbara, Gina Lorenza, Rossella, Lorena: uccise dalla stupida violenza che trova unico sfogo nel più debole o indifeso. L’uso di un coltello che ha sparso tanto sangue anche sugli abiti dei figli presenti alla tragedia, o l’utilizzo di un fucile a pompa, una lama che sembra fosse stata preparata artigianalmente idonea all’uso assassino, un calcio alla testa e una serie di pugni e altri calci, quaranta coltellate e un colpo alla testa con un portacenere per finirla o lo strangolamento dopo numerose altre sevizie. Tristemente inutile questo elenco di agghiaccianti dettagli che definiscono un unico stato d’animo, quello di sempre, quello primordiale che deve indicare il più forte fisicamente e la stolta liberazione nell’individuare il troppo facile sfogo nel più debole.
L’uomo, il maschio, tutto muscoli e assenza di cervello, l’incapacità di controllo delle proprie pulsioni e delle dirette cause della propria debolezza: lo sfogo assurdo della violenza. Tutto il resto è un tremendo senso di impotenza verso tale tragica realtà. L’incapacità di individuare la forza della sopportazione e la cieca rabbia nel ritrovarsi, questa volta per davvero, più deboli. Riusciremo mai ad individuare una fine a tutto ciò? Lo sforzo di tutti noi deve determinarne la fine.
(Mauro Magnani)