Nell’ufficio di Joe Biden al Senato c’è un raccoglitore pieno di “materie prime per il dolore”, ha scritto il New York Times mettendo insieme i discorsi di Biden in ricordo delle persone scomparse. Il suo lutto si è declinato in tanti dolorosi momenti, dalla morte della moglie e della figlia nei giorni del primo giuramento al Senato (era il 1972) a quella qualche anno fa del figlio Beau. Poi ci sono stati i lutti degli altri, degli amici e dei colleghi, e Biden sceglieva dal suo raccoglitore gli spunti per creare quella che i giornalisti del New York Times definiscono la scioltezza con cui lui parla del dolore, per esperienza ed empatia. Ora c’è un altro lutto, un lutto nazionale, quello di George Floyd, ucciso da un poliziotto a Minneapolis, e Biden è sembrato l’unico in grado di dire parole da ricordare, alla famiglia e ancor più agli americani che stanno vivendo un’epoca di ferite antiche che si incontrano con quelle nuove.
Biden ha dimestichezza con il dolore, certo, ha il suo raccoglitore, ma oggi l’America ha bisogno di qualcosa d’altro rispetto alle parole, ha bisogno di una guida che sappia guarire e che sappia dare un senso a questo continuo conteggiare i morti. Si contano i morti nelle proteste, i morti afroamericani, quelli da Covid che hanno spesso la pelle nera e che non stanno scendendo. Per il coronavirus a inizio luglio le persone decedute sono oltre 600 al giorno, con 50.000 nuovi contagi giornalieri, per un paese leader nel mondo in campo economico e finanziario. Il paese non è pronto alla riapertura così come non sembra pronto quasi più a nulla se non a rovesciarsi addosso dolori e rancori. A marzo, Biden stava per dare il suo numero di telefono in diretta tv, chiedendo a chi stava elaborando un lutto di farsi vivo, “non che io sia un esperto, è solo che ci sono passato”. Quella genuinità nel maneggiare il dolore, il proprio e quello degli altri, la capacità di essere sincero e rassicurante hanno fatto finora la differenza con Donald Trump più di qualsiasi altro sondaggio o polemica su Twitter.
Quando Biden dice al presidente: ti manca “l’empatia” è molto più credibile, diretto e vero di quando lancia altre accuse, perché se c’è un tratto umano che differenzia questi due anziani signori che si contenderanno a novembre la Casa Bianca quella sta proprio qui, nella gestione di un 2020 di lutto nazionale. Molti si sono chiesti se questo sia il momento di una leadership che curi e che sia attenta al dolore, dopo questi anni di superficiale brutalità. La risposta non c’è ma c’è il bisogno di respiratori e di mani da stringere (con i guanti) e di congiunti da sorreggere, c’è bisogno di cure, perché le perdite cominciano a essere tante, nei numeri ma soprattutto nelle proprio certezze.
Biden è uno che sorregge, lo ha fatto per sé e la sua famiglia e lo ha fatto molto spesso per gli altri, e pazienza se poi contano il numero di giovani che va a votare, la popolarità presso la comunità afroamericana e i margini negli stati in bilico. Pazienza se influiranno gli equilibri interni ai democratici e la forza della campagna trumpiana che ha già cominciato a parlare di “vittoria a valanga” secondo il noto format “noi vi diciamo quel che gli altri non vi diranno mai”.
Oggi Biden e la sua dimestichezza con il dolore sembrano l’antidoto a mesi di retorica sugli uomini forti e i toni duri, una parola sussurrata all’orecchio che fa quello che dovrebbero fare le parole di chi si prende cura di noi: alleviare il male che sentiamo dentro e farci guardare al domani con coraggio e speranza.
(Tiziano Conti)