Scrivo queste righe appena dimessa da un ricovero presso l’ospedale “Santa Maria della Scaletta” di Imola. Una degenza, in tempi di Coronavirus, può offrire una prospettiva irripetibile per una riflessione più complessiva circa lo stato di salute della sanità pubblica. L’emergenza, durata diversi mesi con conseguenze drammatiche, ha costretto a prendere atto che le scelte compiute negli ultimi decenni – incentrate su riduzione dei servizi essenziali e progressivo slittamento di risorse pubbliche verso la sanità privata – si sono rivelate scellerate.

La Lombardia, la più colpita e, in misura diversa, tutte le altre Regioni hanno scelto una struttura sanitaria centrata sull’ospedalizzazione e sui cosiddetti “centri di eccellenza” privati, debellando la “medicina del territorio” che, per decenni, era stata il baluardo della prevenzione e della cura.

Ma, siamo sinceri, la Lombardia non è che la punta d’iceberg di un più generale accanimento volto a tagliare servizi all’insegna della riduzione delle spese, come se il nostro stato di salute (ovvero il benessere psico-fisico e, dunque, la vita) dovesse soggiacere ad una fredda partita di giro.

Chi pensasse che in Emilia-Romagna le scelte siano state tanto più oculate, peccherebbe di superbia. Un recente rapporto pubblicato dalla stampa rivela, ad esempio, che il numero di posti letto ha subito, negli ultimi anni (2012-2018), un taglio poderoso. Ecco i dati di alcune Regioni.

I numeri che riguardano la nostra Regione sono semplicemente sconcertanti. Il taglio è il più elevato, quasi il doppio rispetto a Piemonte, Toscana, Puglia: lo 0,65 per mille sul numero di abitanti! La Lombardia ‘si ferma’ allo 0,18 per mille.

Trattasi di dati che coincidono, in buona parte, con la Presidenza Bonaccini e, forse, dovrebbe interrogarsi. Anche perché non ci riferisce a generica vox populi bensì ad un autorevole giudizio della Corte dei Conti la quale, nel “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica” (Rapporto Corte dei conti), certifica che anni di tagli alla spesa pubblica hanno causato “una sostanziale debolezza della rete territoriale” che “ha fortemente pesato sulla gestione dell’emergenza sanitaria lasciando la popolazione senza protezione adeguata”. I dati relativi ai tagli sono terrificanti. In cinque anni, il taglio al personale sanitario a tempo determinato è stato pari a – 27.000 unità, quello al personale ‘flessibile’ pari a – 11.500 unità. In Liguria il taglio è stato pari a – 5,4%; in Lombardia, Piemonte, Emila-Romagna tra – 3,7 e – 3,3%. In soli cinque anni!

Se la risposta della sanità emiliano-romagnola all’epidemia non è certo stata brillante (zone rosse, alto numero di contagiati, malati e morti, ecc.) non è certo imputabile soltanto alla vicinanza di focolai in Regioni limitrofe. Le cause sono antiche e palesi.

Certo non v’è dubbio che – nella vicenda del Coronavirus – sottovalutazioni, ritardi inspiegabili e madornali errori, siano attribuibili in primo luogo a governo, ministero ed enti nazionali.

Ed il primo tragico errore (errore?) è stata la direttiva del ministero, suggerita dall’Oms, di sconsigliare ottusamente le autopsie imponendo la cremazione di massa. La scelta s’è rivelata fatale. Per troppe settimane si sono praticate terapie inadeguate, alla cieca, convinti che si trattasse di polmonite interstiziale, alla quale si è risposto con intubazioni e ventilazioni forzate. Finchè due medici coraggiosi di Bergamo si sono ribellati ed hanno iniziato a praticare le autopsie. E la diagnosi è apparsa subito lampante: tempesta di citochine infiammatorie a carico dei vasi sanguigni, inducenti scariche trombotiche inarrestabili. L’intubazione, con insufflazione forzata di ossigeno nei polmoni, ha aggravato la reazione inducendo la morte. Chiarita la vera causa del morbo, le terapie (già disponibili) sono diventate quasi banali: eparina, idrossiclorochina, immuno-plasma terapia. In poco tempo il numero di ricoverati gravi è crollato, le morti progressivamente ridotte, le terapie intensive deserte.

Eppure c’era chi da tempo suggeriva diagnosi e terapie corrette, come il prof. Giulio Tarro, eminente virologo di prestigio internazionale, allievo di Sabin, candidato al Nobel. Inascoltato, come tanti altri le cui analisi sono state censurate se non ridicolizzate. Si è preferito dar retta ad una casta di cosiddetti esperti (il “Comitato tecnico-scientifico”!) che, persino in ossessivi talk-show (come se la morte fosse anch’essa spettacolo), ci hanno detto tutto ed il suo contrario, in uno squallido balletto di dogmi perentori buoni soltanto ad appagare ego, carriere spesso immeritate e manie di protagonismo.

Chi risponderà degli immani sprechi di denaro pubblico per costosissime strutture (terapie intensive, intubatori, ventilatori, ecc.) che si sono rivelate non solo inutili ma fatali? Come abbiamo giustificato la sospensione di tutte le altre cure sanitarie (perfino a malati terminali)? Chi pagherà per aver limitato per mesi le libertà costituzionali di un’intera nazione quando sarebbero bastate rigorose misure di igiene, distanziamento e ben oculate “zone rosse”?

Come saranno risarciti i milioni di operai, artigiani, piccoli imprenditori, ridotti a chiudere le loro attività, molti dei quali non riapriranno più?

E, soprattutto, chi risponderà della vergogna dei macabri cortei di morte con i nostri vecchi abbandonati, strappati all’estremo conforto dei propri cari, dopo essere stati terrorizzati da cinici annunci shock (“dovremo scegliere chi salvare e chi no”)? Un’intera generazione di sapienti – custode della nostra storia più recente e depositaria di un patrimonio inestimabile di esperienza, solidarietà e saggezza – è stata cancellata con un atto di assoluta disumanità. Chi renderà mai conto di questi crimini?

Ed ora, come se la severa lezione non bastasse, ecco riprendere la spudorata litanìa. “A settembre ci sarà una nuova ondata”, “l’emergenza sarà protratta sino alla disponibilità di un vaccino”, “intanto, dall’autunno, si renderà necessaria una massiccia campagna di vaccino antinfluenzale” (come se non fosse stato rilevato un significativo nesso causale tra antinfluenzale e gravità della malattia da Covid-19). Qualche zelante cameriere pare l’abbia già resa obbligatoria e non sarà il solo. C’è da non crederci.

Spero che la Regione Emilia Romagna, che è anche la mia, abbia la saggezza di astenersi da imposizioni prive di valore scientifico. Che si evitino manichee volgarizzazioni di legittime posizioni critiche (no-vax, free-wax, fake news) e si ragioni secondo logica che a me pare essere la seguente: le cause dell’epidemia sono state ben individuate a seguito delle autopsie, le terapie corrette sono ampiamente disponibili, i malati si possono curare tranquillamente senza ricorrere a terapie intensive ed intubazioni letali. Dunque, che c’entra il vaccino?

Anche in questo caso ci soccorre un’autorevole ricercatrice che, in questi mesi, ci ha spesso illuminati, con sapienza e pacatezza: la dott.ssa Maria Rita Gismondo, direttrice di Microbiologia clinica e Virologia dell’ospedale “Sacco” di Milano, guarda caso un’eccellente struttura pubblica. La quale ammonisce: “La produzione di un vaccino richiede tempi anche lunghi (sino a dieci anni)… malgrado ciò, ancora una volta l’Oms pubblica un nuovo codice per la sperimentazione ‘velocizzata’ di un vaccino. Mentre il New England Journal of Medicine pubblica i dati dei primi studi sul vaccino MRna-1273 (anti-SarsCoV2) della ditta Moderna (*): nulla di entusiasmante, tollerabilità non ottimale, efficacia ignota. Eppure le istituzioni internazionali esultano e sono pronte a bypassare ogni regola. Spero che l’Oms si ricreda, le sperimentazioni vanno fatte con i tempi imposti dalla scienza, senza pericolose scorciatoie. Tanto più che il vaccino proposto è una novità metodologica assoluta: è la prima volta che, per vaccinare il paziente, si inietta direttamente materiale genetico usato dalle cellule umane per sintetizzare la proteina del virus contro cui si vuole che il paziente produca anticorpi. Qualcuno può spiegarmi perché si vietano i pomodori geneticamente modificati e si dà il via libera a modificare il materiale genetico delle cellule umane?”.

Ecco, qualcuno vorrebbe, di grazia, rispondere anche a noi che ne saremmo le cavie predestinate nonché le vittime sacrificali dei micidiali effetti collaterali? E, soprattutto, qualche pasdaran del vaccino, come unico e miracoloso antidoto, vorrebbe spiegare l’origine di tanta ostinazione?

Farei molta attenzione a sottostare al esagitato fondamentalismo vaccinaro, il gregge non è poi così supino o imbelle, si chiede da tempo cui prodest, a chi giova? Ha inteso molto bene che la fonte di tanta ossessiva propaganda è palese, ovvero la potenza oscenamente pervasiva di un pugno di gruppi finanziario-farmaceutici che dai vaccini ricavano profitti spropositati ed immorali, condizionando sapere e ricerca nelle università di tutto il mondo, imponendo rigidi ‘protocolli’ nelle terapie cliniche anche della pubblica sanità e ‘orientando’ buona parte della cosiddetta ‘scienza ufficiale’ ad essa legata da palesi conflitti d’interesse. E troppi politici, ahinoi, nel servile ruolo di maggiordomi, spesso inconsapevoli e tuttavia conniventi.

Ebbene, in questa desolazione di ritardi, sottovalutazioni, errori ed insipienza, a me è capitata l’inattesa fortuna di conoscere una delle poche (o forse tante ma sommerse) eccellenze della sanità pubblica. Ovvero l’Unità operativa oncologica dell’ospedale di Imola, diretta dal primario, dottor Antonio Maestri, coadiuvato dalla dottoressa Rosalba Poggi e da un’equipe medico-sanitaria-assistenziale di primordine. Penso da sempre che quella del medico non sia soltanto fredda scienza ma soprattutto arte. Arte umanistica. Si tratta, probabilmente, della più nobile professione cui ci si possa dedicare. E quella dell’oncologo, in particolare, lo è ancor più.

Fortunatamente, per me, si è trattato di patologia quasi banale ma in questi luoghi giace abitualmente un’umanità dolente, impaurita, sovente in preda al panico che, improvvisamente – spesso un fulmine a ciel sereno – si vede consegnare un verdetto infausto con il monito: memento mori, ricordati che devi morire ed è giunta l’ora.

In questa equipe, che mi ha così amorevolmente curata, ho finalmente incontrato chi, ogni giorno, impersona ruolo, consapevolezza ed anelito a corrispondere a questo ideale di medico e di collaboratore sanitario che pratica un’arte intrisa di umile sapienza, empatia, solidarietà.

Mi si è svelata un’umanità, ahimé invisibile, troppo spesso umiliata eppur possente, di competenze, intelligenza e passione. E, soprattutto, di raffinate sensibilità. Dalle signore delle pulizie al dottor Maestri non sono mai giunti, in tanti giorni, alcuna parola o gesto sbrigativo. Men che meno fastidio o scortesia. Soltanto attento ascolto del paziente, premure, delicatezza.

Sbrigatività e supponenza m’è capitato di trovare, invece, presso un noto “centro di eccellenza” della sanità privata regionale, forse immeritatamente osannato. Il mio incontro con loro potrebbe essere stato soltanto un caso sfortunato, non dò un giudizio sulla qualità della struttura ma resta l’amarezza.

Mi piace invece immaginare che, per stanze e corridoi dell’Uoc dell’ospedale di Imola, aleggiasse il motto “primum non nocere”. E s’aggirasse, tra di noi, lo spirito complice di colui che ha ispirato tale monito oltre duemila anni fa, ovvero il grande medico Ippocrate di Coo.

(*) di proprietà della Bill & Melina Gates Foundation, impero finanziario – farmaceutico – spudoratamente millantato quale “benefattore dell’umanità” – e primo finanziatore dell’Oms (sic).

(Laila Cavalcanti – [email protected])

P. S. Questo intervento è stato inviato al presidente della Regione Emilia-Romagna e, per conoscenza, alla vice-presidente della Regione Emilia-Romagna, al commissario prefettizio del Comune di Imola, al direttore sanitario Ausl Imola, al direttore dell’ospedale S. Maria della Scaletta di Imola, al dottor Antonio Maestri, primario Uoc ospedale S. Maria della Scaletta di Imola