Venezia, 4 settembre 2020. Padre nostro, film oggi in concorso a Venezia 77°. Con Piefrancesco Favino (Alfonso), Barbara Ronchi (Gina), Mattia Garaci (Valerio) e Francesco Gheghi (Christian).

Roma, 1976. Valerio ha dieci anni e una fervida immaginazione. La sua vita di bambino viene sconvolta quando, insieme alla madre Gina, assiste all’attentato ai danni di suo padre Alfonso da parte di un commando di terroristi.

Da quel momento, la paura e il senso di vulnerabilità segnano drammaticamente i sentimenti di tutta la famiglia. Ma è proprio in quei giorni difficili che Valerio conosce Christian, un ragazzino poco più grande di lui. Solitario, ribelle e sfrontato, sembra arrivato dal nulla. Quell’incontro, in un’estate carica di scoperte, cambierà per sempre le loro vite.

Lasciamo al regista, Claudio Noce (2014 – La foresta di ghiaccio 2010 – Good Morning Aman) raccontare il suo film.

“La sua figura forte, magnetica, eroica, assurge ad archetipo di un’intera generazione di uomini in cui le emozioni erano percepite solo come debolezza e obbligate ad essere camuffate in silenzi. Nel dicembre del 1976, quando mio padre subì l’attentato, io avevo due anni, abbastanza per comprendere la paura troppo pochi per capire che quell’affanno avrebbe abitato dentro di me per molto tempo. Non sono mai riuscito a dirglielo. Scrivere questa lettera a mio padre tracciando i contorni di una generazione di bambini “invisibili” avvolti dal fumo delle sigarette degli adulti non è stato facile, provare a farlo mutando le parole da private in universali una grande sfida come cineasta e come uomo.

In questi giorni ho riletto la rivendicazione dei NAP rilasciata dopo l’attentato. Solo adesso capisco veramente come la mia infanzia sia stata percorsa a lungo da quella frase ‘Alfonso Noce sappia che la sua condanna a morte è stata soltanto rinviata. I proletari hanno tanta pazienza e lunga memoria.’

Per anni ho sentito la paura arrivare nel cuore del giorno e della notte ascoltando gli adulti ripetere quella minaccia come un mantra. Durante tutte le fasi della lavorazione del film ho affrontato una faticosa battaglia interiore. Ho lavorato su due piani distinti: uno fortemente evocativo in forte relazione con la porzione autobiografica della storia, l’altro più libero, emancipato dai miei ricordi e più conforme alla favola dell’amicizia. I due piani tuttavia sono comparati sullo stesso terreno di studio e di indagine.

La forma del film nasce proprio dalla dicotomia di questi differenti criteri. Anche nella drammaturgia abbiamo seguito questo principio: una pagina rincorre il romanzo familiare, la successiva si perde nella favola di quello di formazione. A volte però il calore sconfinato di un ricordo si confondeva con il racconto, spesso ho rischiato di smarrire la strada.

Una vertigine e poi una caduta. Il paradigma da seguire, mi è giunto chiaro durante la preparazione della sequenza dell’attentato. Zenit della crisi. Mi chiedevo da tempo quale fosse la giusta adesione a quel respiro di storia così intimo. La scena che per più di quarant’anni la mia famiglia aveva cercato di dimenticare, andava ricostruita minuziosamente.

Sono ripartito dalla ricerca. Un passo indietro, mi sono chiesto ancora una volta cosa fosse successo quella mattina del 1976. Come un reporter sono andato alla biblioteca nazionale ho consultato ancora una volta i quotidiani dell’epoca usciti il giorno dopo l’attentato

La nostra memoria è custodita è scolpita lì da quarantaquattro anni. Conoscevo già molto bene tutta la dinamica dell’attentato, mi mancavano solo alcuni fondamentali dettagli. Non avevo scelta dovevo riaprire quella ferita, riesumando quell’istante sommerso. Ma in che modo? certamente attraverso lo sguardo di Valerio. Ma non bastava.

Mi interessava anche la dinamica dell’assalto narrata come una scena di “guerra” così da autorizzare lo spettatore a smarrire nella pancia lo stesso ansimo di Valerio, avvertendo fino in fondo il suo sollievo una volta ritrovato il suo respiro. Spero di esserci riuscito”.

(Verner Moreno)