Venezia. 6 settembre 2020. “1 gennaio 1855”. L’inizio dell’anno in una fattoria isolata in una contea del far east o west degli Usa. E l’inizio di un diario intimo e poetico della donna che insieme al marito vive lì. Il film in concorso alla 77. Mostra di oggi, “The world to come”, diretto dalla giovane regista norvegese ma con base Usa, Mona Fastvold, da una sceneggiatura di Ron Hansen e Jim Shepard, basato sull’omonimo romanzo di Shepard, parla della fatica psicologica di vivere.
Giornate scandite dalle sfiancanti attività quotidiane mungere, preparare il cibo da conservare, tenere in ordine la casa, dare da mangiare e badare agli animali. Aiutare nei campi, rispettare il capo famiglia. Le condizioni del luogo rendono ancora più difficili le azioni: bufere di neve, gelo e soprattutto in quell’inverno di un secolo e mezzo fa la solitudine che rende vano il senso delle cose. Una vita senza scopo per la coppia, ma in particolare per la moglie, senza relazioni sociali con un tragedia alle spalle, che ha vanificato anche l’amore.
Resta solo il dovere. Il diario, attraverso la voce fuori campo che scandisce in forma pura e chiara gli avvenimenti e le sensazioni, riporta questo scorrere dei giorni, fino all’arrivo di una coppia nella fattoria vicina. Le affinità tra le due mogli è intensa. E porta conseguenze sia interiori che esteriori. Non si può dire che quest’anno alla Mostra non vengano mostrati sentimenti intimi con l’intento di creare empatia. Dopo “Padrenostro,” “Pieces of a woman” “The disciple”, anche questa pellicola scandaglia l’animo umano per ricavarne partecipazione. Si contrappongono la solare e bionda rossa Vanessa Kirby (presente anche in “Pieces of a woman”), tono di voce importante per una donna che lascia il segno sullo schermo e la molto più sofferta autrice del diario l’attrice Katherine Waterston, bruna e timida. I rispettivi coniugi, gli attori Christopher Abbott e Casey Affleck, hanno un ruolo più cupo e sfumato.
Nella storia stona però proprio l’ambientazione contadina (comunque con abiti spesso lindi e con interni ben arredati), per un dramma tipicamente borghese, nel senso che le protagoniste hanno cultura, tempo e mezzi che si fa fatica a pensare appartengano a tipici coloni della frontiera dell”800. La forza dei sentimenti femminili, tra cui vince l’immaginazione, resta.
Un film dickensiano “Khōrshīd” (I figli del sole) diretto dal regista iraniano Majid Majidi. La presenza della giuria della mostra, guidata da Cate Blanchett in bianco e giacca scura brillante, in sala alla visione in sala Grande con l’autore, due attori, Javad Ezati e la bambina Shamila Shirrzad e il produttore testimonia la vicinanza a questo cinema in difficoltà per via di censura, restrizioni e controlli su internet ed embargo che rende difficile il reperimento dei materiali per potere girare.
Il parallelismo con le storie ottocentesche di Charles Dickens (“David Copperfield”,, “Oliver Twist” ma anche “Grandi speranze” e “Casa desolata” da consigliare) definisce anche la distanza temporale che separa un cinema ancora giovane dove vige l’urgenza di raccontare una storia di bambini sfruttati in una società ancora per certi versi antica e patriarcale e il cinema occidentale, che ha superato quella fase cinematografica inoltrandosi in linguaggi più contemporanei. Ma Dickens sa raccontare e risulta avvincente anche oggi pur con qualche lungaggine, così “Khorshid” riesce ad interessare alla narrazione, comunque sapiente, anche se si dilunga in alcune parti. I bambini sono i protagonisti. Sono Ali, il piccolo adulto Rouhollah Zamani, e la sua banda di ladruncoli il cuore pulsante della pellicola. Si arrangiano con lavoretti vari, questi bimbi di strada abbandonati da genitori fragili e istituzioni. Solo una scuola finanziata da benefattori un po’ distratti risulta il centro salvifico di speranze e occasioni future.
L’insegnamento di maestri ruvidi ma magnanimi può portare sulla retta via, mentre lo stato o è assente o retrogrado e spesso vendicativo. Ali capita nella scuola alla periferia di Teheran e vi si iscrive coi suoi amici per una missione, trovare un tesoro nascosto nelle fogne sotterranee, come gli ha richiesto un vecchio capo malavitoso verso cui è debitore. Lo scavo da minatore risulta improbo per il ragazzino, che comunque è pieno di risorse e inventiva. La proiezione è stata accolta da tanti applausi rivolti a regista e interpreti. Rimane una curiosità : ma la pellicola verrà distribuita nel suo paese?
Risulta deludente il terzo film in concorso, “Miss Marx”, della regista romana Susanna Nicchiarelli già vincitrice nella sezione Orizzonti con “Nico”. La biografia della terza figlia di Karl Marx, interpretata un po’ rigidamente da Romola Garai, si intuisce essere frutto di una puntuale documentazione. Le molte frasi “programmatiche” pronunciate durante il film vengono riprese probabilmente in maniera esatta. Ma il contesto in cui tali parole vivono le rende stonate. E’ la difficoltà dei film biografici. O si esce da ciò che è documentato e si ipotizza la vita vissuta rischiando l’agiografia del personaggio o si rimane aderenti alle informazioni scritte rendendolo didascalico. E la regista non è sfuggita da tale cliché. Pur se interessante come reperto storico, non ci si riesce a immergere in questa vita anche se complessa e piena. Miss Marx, intelligente, colta, emancipata:”attivista, socialista, traduttrice, attrice, impegnata politicamente, un genio” secondo l’interprete Romola Garai, prima pare sottomessa alla presenza ingombrante del padre, filosofo autore de “Il capitale”, manifesto del partito comunista e quando quest’ultimo muore nel 1883, si ritrova nella spirale di un amore tormentato con il dott. Edward Aveling, interpretato dall’attore Patrick Kennedy. Così le teorie su liberazione e uguaglianza degli esseri umani, compresa l’emancipazione femminile, che lei, lavorando per il Movimento operaio propugna e documenta in giro per il mondo, raccogliendo e rendendo più limpide e chiare le idee paterne, trovano l’eterno dilemma tra pratica e teoria.
Per dirla con le parole della Nicchiarelli: “Siamo tutti divisi tra una sfera razionale e una sfera emotiva che tante volte fanno a pugni. Siamo tutti fragili e forti al tempo stesso. La vita è un equilibrio, o uno squilibrio, tra questi due poli”. La modernizzazione è operata dalla musica. La storia di Tussy – così la chiamavano tutti – è accompagnata dalla colonna sonora, tra un coro che intona L’Internazionale e i Downtown Boys e i Gatto Ciliegia contro il Freddo che reinterpretano brani che vanno dalla musica classica a Bruce Springsteen in chiave punk. Un po’ bello un po’ no.
(Caterina Grazioli)