Anche dalle nostre parti esiste una tradizione di Dei creati appositamente all’uopo, alla bisogna e occorre ammettere che la fantasia non ci ha mai fatto difetto. Così, se è vero che l’acqua rappresenta la fonte primaria per la vita dell’uomo (anche se ci stiamo impegnando a fondo per distruggerla con una costanza e una forza raramente riscontrabili in altri frangenti), è dunque necessario attribuirle il rango che le spetta: il nome di una Dea. E quando il torrente in questione deriva dalla confluenza di ben tre ruscelli, ecco nascere l’esigenza di individuare una Dea all’altezza della situazione: una Dea con la bellezza di un braccio in più, per l’appunto la Dea Terna, quella con le tre braccia. Oggi Diaterna: il maggior affluente del nostro casalingo Santerno.
In un tardo pomeriggio di fine aprile, stavo ritornando sui miei passi lungo il torrente con le pive nel sacco (spicciolo detto tipicamente romagnolo a significare un fiasco solenne, un nulla di fatto) dopo aver tentato, per diverse ore e non con poca fatica di acchiappare qualche trota in quelle acque limpidissime: non so al giorno d’oggi, ma nei primi anni settanta nel corso terminale del torrente erano presenti esemplari di trota Fairo, argentate e con numerosi puntini rossi sul ventre e rappresentavano una preziosa preda per il pescatore in quanto non facili da catturare e un premio significativo per il palato: passate in forno con una noce di burro rappresentavano una prelibatezza non comune.
Il Santerno e il pescatore
Come ho detto, me ne stavo tornando verso l’auto con il paniere vuoto e una certo amaro in bocca (non per la sete …) quando, alla confluenza con il Santerno, dopo essere transitato sotto le rovine del ponte a due arcate fatto costruire dai Duchi Toscani sul Diaterna per consentire agli abitanti di Cerreta e dintorni di raggiungere la chiesetta di Ca’ Maggiore anche in giornate di meteo non clemente, quando lo vidi: seduto sul bordo di una roccia con i piedi in acqua mi dava le spalle.
Piuttosto robusto e non molto alto, indossava una casacca che aveva visto tempi migliori e pantaloni di fustagno opportunamente rabboccati onde evitare il contatto con l’acqua del fiume (maldestro ed inutile tentativo: entrambe le parti in fondo ai pantaloni erano abbondantemente bagnate); il colletto di una camicia di cotone fuoriusciva dal bavero della casacca e un vistoso fazzoletto rosso proteggeva il collo del uomo dato che la camicia era quasi completamente sbottonata.
Era intento a pescare nelle acque del Santerno, proprio dove i due corsi d’acqua si univano: utilizzava una canna di bambù di evidente costruzione casalinga (il terminale era privo di impugnatura e i passanti per la lenza erano stati legati con un refe di canapa tenuto fermo con nodi).
Quando riuscii, vidi che anche il raccoglitore terminale della lenza era di costruzione personale: niente costoso mulinello, ma un grosso rocchetto di legno tenuto saldo al fondo della canna con una robusta vite passante: per recuperare la lenza tesa sull’acqua occorreva quindi provvedere con la mano destra in assenza di qualunque meccanismo all’uopo.
Devo ammettere che la mia prima impressione fu di sufficienza: una rapida scorsa alla mia attrezzatura mi auto-classificò di classe decisamente superiore: stivaloni alti alla coscia opportunamente ripiegati al ginocchio, canna di fattura artigianale a sezione esagonale (lavoro di un artigiano faentino di nome Ancarani) e raccoglitore di lenza a rotore su perni di agata: tutta un’altra storia e un’altra classe.
Così, mentre mi soffermavo fermo alle sue spalle, osservavo i suoi gesti lenti e precisi mentre lasciava scorrere la lenza, molto lunga in acqua e priva di galleggiante) evitando, mi pareva, di contrastarne il movimento del corso dell’acqua. Quando la lenza raggiungeva il punto in cui la corrente terminava, portava il tutto verso la riva e raccoglieva il filo in ampie spire ai suoi piedi: la mia mente corse immediatamente al ricordo di disastrosi grovigli non proprio facili da rimediare.
Macché, si produceva in un ulteriore lancio a monte della corrente e lasciava il filo scorrere lungo la corrente delle acque. Improvvisamente lo vidi irrigidirsi, quasi tendersi in uno spasmo improvviso, la presa sulla canna divenne tesa e ferma poi, improvvisa la ferrata: il tendersi della lenza fu l’inevitabile conseguenza e la lotta tra l’uomo e l’animale ebbe inizio. E non fu cosa da poco perché, nel finale, il cavedano che venne raccolto al termine della tenzone era di dimensioni ragguardevoli e fu portato a riva, per terminare tra alle mani del pescatore con movimenti precisi e fermi quasi si trattasse di un accordo.
Ma le mie sorprese non erano ancora destinate a terminare. Non mi ero avveduto del sacco di iuta che, trattenuto da un grosso sasso, sembrava navigare sull’acqua appena mossa lungo la riva: quando fu sollevato per inserirvi l’ultima cattura mi avvidi che nel fondo altre numerose prede si dibattevano in cerca di una libertà che non avrebbero più avuto.
Fu allora che si girò e mi vide fermo poco lontano: “Buon giorno”. Risposi al saluto e:” Bel colpo!”.
“Si, oggi è una buona giornata. Quando mi sono avvicinato al fiume ho potuto vedere che tra l’erba si muovevano grilli e cavallette. Ne avevo una buona scorta e le ho quasi terminate”.
“Era andato a raccoglierle prima” domandai.
“No, io non ce la faccio più. Mio nipote provvede, in cambio di trenta lire per il gelato.”
Prese allora a squadrarmi come tentasse di comprendere dalla mia postura qualcosa di me.
Il risultato mi sorprese:” Non ha preso niente, vero?”
Il mio silenzio fu la risposta più eloquente.
“Scommetto che ha usato lombrichi, vero?”
Mostrai la scatoletta di alluminio ancorata alla cintura dei pantaloni come segno di assenso.
Scosse la testa, appoggiò la canna lungo la riva del fiume e si sedette sulla roccia che fino a poco prima era stata il suo sedile. Ebbe allora iniziò una sorta di “lezione” che non dimenticherò tanto facilmente: nella sua parlata (un misto di toscano, romagnolo e italiano) avvertii la presenza di tutta l’esperienza di una vita unitamente al peso della stessa, quasi si trattasse di un fardello da portare con sè ogni giorno.
Il racconto
“Non se l’abbia a male per quello che le dico, ma voi della bassa venite quassù a pescare e non avete occhi per ‘vedere’ intorno a voi. Crede che quassù tra sassi e ancora sassi e roccia si trovino i lombrichi? Quando le mettono nel piatto qualcosa che lei non conosce, che non ha mai visto, non resta per un attimo di dubbio? I pesci sono animali come noi e la pensano allo stesso modo. Lei ha girato per il torrente vestito da città, con un’attrezzatura da città e il pesce è rimasto in acqua. Mi tornano in mente i tedeschi che se ne stavano quassù e sembravano i padroni del mondo. E doveva sentirli i caporioni come gridavano e davano ordini. Stavano perdendo la guerra e non riuscivano ad accettarsi. Grossi camion, camionette, motociclette e niente testa. Come se si potesse girare tra queste montagne con i camion. In fondo, ma proprio in fondo, era povera gente comandata, molti di loro non erano nè nazisti nè fascisti, ma comandati: o ubbidivi ciecamente o ti sbattevano al muro.
Ma erano altri tempi. Io ci sono nato quassù, proprio in una casa là in alto, dove nasce uno dei tre bracci del Diaterna: se non imparavi a conoscere quello che ti stava intorno duravi poco! Quando aprivi la finestra la mattina, e qualche volta la finestra non aveva i vetri e ci mettevamo degli stracci, annusavi l’aria e buon per te se riuscivi a capire che giorno sarebbe venuto. Poi giù la schiena e lavoro duro. Ripeto, senza offesa, ma quando andavo o per trote, là in alto, era per la cena e se non si prendevano si andava avanti con il pane avanzato dei giorni prima, ammollato nel latte della capra.
E buoni anche quegli altri, quelli che hanno vinto, quelli che avevano la cioccolata e le sigarette: non sono andati tanto per il sottile quando hanno bombardato Firenzuola fino a quando non è rimasta in piedi neppure una casa. E quanti, anche di loro, ne sono rimasti lassù! La vita lasciata su una terra che non era la loro, che non aveva il loro profumo, che non avevano mai visto. Poi li hanno raccolti lassù, nel cimitero di guerra, tutto verde e ben tenuto, ma loro sono là sotto e non vedono più nulla, non sentono i profumi.
Ho fatto la mia parte anch’io, sa? Ne ho fatto sentieri e anche non-sentieri per portare messaggi, rifornimenti e munizioni. Come ricordo ho rimasto questa gamba zoppa, quasi trapassata da una scheggia di granata: non ero stato abbastanza attento. Proprio come quei poveri ragazzi lassù. Troppi anche se fosse uno solo!”
Restavo ad ascoltarlo reso immobile da una sorpresa che mi rendeva passivo: stavo assistendo e ascoltando una lezione di vita da un perfetto sconosciuto, ma le sue parole mi entravano dentro rendendomi passivo, inerme. Non mi ricordavo più come eravamo giunti alla seconda guerra mondiale dalla pesca alle trote ma non me ne importava.
“Quando tutto è finito, quassù era rimasto ben poco. Solo i fortunati. Ma… Poi fortunati. Ci sarebbe da dire. Ma la sto annoiando con le mie storie e faremmo meglio a parlare di pesce. Quando ha risalito il Diaterna, ha fatto caso ai giovani carpini? Ha visto quanti ce ne sono di ammalati. Quelli che non sono abbastanza robusti e che non ce la faranno. Scavi un po’ con una paletta lì dove iniziano le radici e troverà, con un po’ di fortuna dei piccoli vermi bianchi, mollicci, non facili da mettere all’amo. Provi con quelli e vedrà”.
Poi, come preso da un pensiero lontano, restò per un po’ in silenzio guardando scorrere l’acqua poco lontano suoi piedi, il capo reclinato, come assente. Come riemerso da un personale pensiero, rialzò il capo e guardò lontano, verso il corso del fiume che si gettava nel Santerno.
“Proprio come facevamo io e lo zio di Angelo: nati tutte e due lassù eravamo come due fratelli. Dividevamo il niente e il poco. S’imparò presto ad arrangiarsi. Si scavava insieme sotto le piante malate, si trovavano i bigatti e la sera si mangiavano trote. E bisognava che ti piacessero. E che ti piacessero molto perché c’erano solo quelle. Lui non è stato fortunato, la stessa granata che mi ha azzoppato gli ha portato via mezza faccia. Angelo, invece, vive ancora lassù a Cerreta, e dice che non andrà mai via da quella casa, anche se lui poi è nato più in su, molto più in su. Ma provi, provi con i bigatti bianchi, magari un po’ vestito meno colorato e si metta addosso un po’ di frasche. La saluto”.
Raccolse la canna, il sacco di iuta con le prede che si dibattevano e aprì la piccola scatola di legno restituendo la libertà ai grilli e cavallette rimasti:” Così domani mio nipote li torna a prendere e io posso ripagargli il gelato. Me lo faccio amico!”. Un sorriso rivolto verso di me e si incamminò a monte verso l’acqua sottile per passare dall’altra parte del fiume.
Lo salutai con un “arrivederla” che mi uscì non so bene da dove. Guardavo quell’uomo che si allontanava, che non conoscevo, che non avrei mai più rivisto che mi aveva, in poche parole, dato una robusta lezione di vita … e di pesca. Rimasi a lungo sul fiume, fino quasi all’imbrunire, seduto sulla stessa roccia del vecchio pescatore incapace di prendere una decisione: le parole appena ascoltate mi ritornavano in mente in uno strano miscuglio di immagini, uno strano misto di pesce, bigatti, giovani morti in guerra, poveri tedeschi incapaci, le montagne, le finestre senza vetri. Poi, come risvegliato, mi diressi all’auto e via verso casa.
Finalmente la trota…
Nei giorni che seguirono, lo ricordo molto bene, i momenti di quel l’incontro mi restavano presenti e mi ritrovavo a riviverli distraendomi dalle occupazioni quotidiane. Alla prima occasione, pochi giorni dopo, ero nuovamente alla confluenza del Diaterna nel Santerno e rimasi quasi contraddetto quando vidi la roccia che era servita da sedile al vecchio pescatore non occupata.
Iniziai a risalire il fiume e non mi occorse molto ad individuare il primo piccolo carpino malato; dopo aver smosso un poco la terra ecco sbucare il primo verme bianco: mi sorpresi alla verifica, come avessi bisogno di una prova della verità per tutto quello che mi era stato detto. Ne trovai altri senza dover cercare un altro alberello malato e iniziai a risalire la corrente. Avevo seguito i consigli tecnici: pantaloni marroni scuro e un vecchio maglione verde erano il mio abbigliamento. Di lì a poco, la prima trota Fario era nelle mie mani: la trattenni in acqua per liberarla dall’amo in modo da non rovinarle la delicatissima pelle e la rilasciai. Non ero venuto per pescare. Ero venuto per una conferma. E non solo di pesca.
Al giorno d’oggi
Pochi mesi fa, durante il periodo di blocco forzato causa pandemia, il mese di aprile ci ha regalato delle splendide giornate, ideali per una bella camminata. Sfidando controlli e restrizioni, eccomi a Ca’ Maggiore e via su per il sentiero che porta a Monti, poi, quasi in vetta presi a sinistra ed eccomi a Cerreta e discendere lungo la breve e stretta strada asfaltata che finisce nella statale. Da quelle parti il Covid 19 non è arrivato. Una breve sosta nei pressi del varco invadente creato per il passaggio della linea ferroviaria dell’Alta Velocità: un insulto per l’ambiente, il colore ed il profumo di quei luoghi e, a ben riflettere, anche per tutti noi.
Ricordate quando ci promisero che con i nuovi treni super veloci si sarebbe creato ampio spazio per i treni dei pendolari? Per non parlare del trasporto merci… Andate a parlare con quelli che attendono i treni regionali per verifica. Un’altra promessa al vento. Sta diventando quasi una certezza. Poi sedete i davanti ai binari e aspettate che transiti un treno merci: telefonate a casa, farete tardi.
Non ero a conoscenza che nel luogo fosse attivo un agriturismo e trovai disponibilità per mangiare qualcosa. Seduto al tavolo con il gestore conversammo un po’ di tutto e finii per chiedergli se sapesse qualcosa di quel vecchio pescatore del luogo, un partigiano dell’ultima guerra, e di un certo Angelo. Conosceva bene Angelo, ora anziano, che viveva ancora nella sua casa a Cerreta, decisamente isolato e felice, irriducibile nella sua scelta. Lo chiamavano, scherzosamente “il Sindaco“, unico abitante, unico elettore, unico amministratore di Cerreta ed ecco eletto all’unanimità.
Non mi fu di grande aiuto, al contrario, nel cercare di comprendere chi fosse il vecchio pescatore non essendo della zona, ma poi, ripensando chiamò la moglie, le fornì qualche traccia del mio racconto e lei ipotizzò si trattasse del vecchio gestore dell’unico negozio allora presente a Coniale, ora trattoria (scuotendo il capo si e mi chiese chi poteva, al giorno d’oggi condurre un negozio di qualunque genere a Coniale, che non ci stava più nessuno e che tutti avevano la macchina …), poi sembrò ricordare qualcosa del gestore di allora e rammentò, con qualche dubbio, anche un nome: Giannetto, le sembrava di ricordare che lo chiamassero così e che fosse proprio lui l’attivo partecipante alla lotta partigiana di quella terra. “Ma bisognava chiederlo a sua madre, che era nata proprio lì in quella casa che l’avrebbe conosciuto senz’altro, ma che ora non c’era più.”
Mi restava una sola possibilità di verifica ai miei ricordi: Cerreta e Angelo, così pochi giorni fa eccomi ancora una volta a Cerreta. Il piccolo borgo sembra ancora ben tenuto e non presenta evidenti tracce di abbandono. Infatti ho incontrato diverse e gentilissime persone presenti nel luogo, proprietari a vario titolo di quelle case, bimbi che giocavano in piccole piscine gonfiabili.
Qualche chiacchiera poi chiedo se qualcuno ancora abitava stabilmente in quelle case. No, mi dicono, ora non più e mi indicano una quarantenne lì presente: il figlio di Angelo, mancato poco più di un mese fa. Mi giro verso di lui e lo vedo che scuote il capo a triste conferma, poi, a testa bassa e quasi in un sussurro: “Quest’inverno, a Cerreta, non ci starà più nessuno”.
(Mauro Magnani)