Bologna.  Anche in condizioni “normali”, il 14 settembre sarebbe stato per me e per mia moglie un giorno di grande emozione: i nostri figli, per la seconda e ultima volta, avrebbero cominciato entrambi un nuovo ciclo di studi, le superiori per il maggiore e le medie per la minore. Se a questo aggiungiamo l’eccezionalità dell’attuale periodo storico, che ha fatto coincidere questa data con la ripresa della didattica in presenza dopo quasi sette mesi di sospensione forzata causa Covid-19, si può immaginare il nostro stato d’animo quella fatidica mattina. Tenuto conto che mia moglie è a sua volta insegnante, non avrei proprio voluto essere nei suoi panni: nei giorni precedenti è stata impegnata a trovare nuove soluzioni per rispettare tutti i protocolli, dall’imparare la normativa allo spostare gli armadi fuori delle classi per guadagnare preziosi metri quadrati, dal selezionare il materiale da conservare al misurare, metro alla mano, la distanza tra le famigerate “rime buccali”.

La ripresa, a dire il vero, si è poi rivelata più soft del previsto, almeno dal punto di vista dei ragazzi: i primi giorni di lezione si sono ridotti a poche ore perché mancavano numerosi docenti (ancor più degli anni scorsi, per l’enorme incertezza tutt’altro che mitigata dai provvedimenti ministeriali), poi si è avuta subito la battuta d’arresto dovuta alle elezioni, con le scuole sedi di seggio (ancora…) chiuse due giorni per ri-sanificare tutti gli spazi. La voglia di rivedersi, di entrare in classe, di sedersi a un banco con il proprio zaino di fianco, di vedere dal vivo i professori, ha conferito al primo giorno di scuola un gusto particolare, ben diverso dal solito: non più supplizio da fine delle vacanze, ma liberazione da un incubo fatto di videolezioni, isolamento e connessioni sempre troppo instabili.

Così i ragazzi sono entrati a scuola, non più – per ovvi motivi – come una fiumana uscita dagli argini, ma scaglionati a intervalli di 5 minuti e attraverso tutti gli ingressi delle scuole, anche quelli di emergenza o quelli solitamente non utilizzati, che magari si erano pure ricoperti di erbacce per l’inutilizzo. Ognuno è entrato in classe seguendo il percorso tracciato, si è seduto al proprio banco singolo (con o senza rotelle, poco cambia) e solo a quel punto ha potuto togliersi la mascherina. Molte scuole forniscono giornalmente le mascherine e ogni classe ha il suo gel igienizzante. La segnaletica orizzontale è presente ovunque, e i posti sono delimitati dal nastro giallo e nero come per i lavori stradali, o nei capannoni. Anche i docenti ne sono soggetti: entro il semicerchio intorno alla cattedra – ove presente – si possono togliere la mascherina per qualche minuto, ma appena decidono di passare tra i banchi devono rimetterla (e igienizzare le mani se toccano materiale degli studenti). Per le insegnanti di sostegno, che hanno bisogno di un rapporto più ravvicinato con i propri alunni, oltre alla mascherina sono previsti anche la visiera e il grembiule monouso.

In questi aspetti la scuola, volente o nolente, inizia ad assomigliare ad un ospedale, anche se i docenti cercano di fare di tutto per non farla sembrare così. Certo, le nuove mansioni richieste al personale non aiutano in questo: i docenti devono sanificare la propria postazione all’inizio di ogni lezione, e gli stessi collaboratori scolastici si trovano a pulire e sanificare tutto in continuazione, smistare le mascherine, rifornire classi e bagni di gel.

Queste operazioni sarebbero senz’altro più agevoli se l’organico, come inizialmente promesso, fosse aumentato: invece in molto casi non è stato così, e la prevista riorganizzazione di molti istituti, basata su un numero maggiore di classi meno numerose, è andata bellamente a farsi benedire. Paradossalmente risultano favoriti gli istituti scolastici più vecchi perché con aule mediamente più vaste. In alcune classi si sono tolti tutti gli armadi e le stesse cattedre sono state sostituite da un banco, pur di recuperare qualche metro quadro di superficie utile.

La gestione degli spazi comuni e dei tempi è diventata un fattore chiave per minimizzare i rischi di contagio. Ogni occasione di assembramento, anche solo potenziale, va rifuggita come la peste. In alcune scuole c’è il registro-bagno: ogni classe può usufruire del bagno solo in orari stabiliti, e se per un’urgenza si deve andare in bagno fuori da questi orari le insegnanti sono tenute a registrare le uscite e le entrate (con interruzione della didattica) per ricostruire, nel caso più sfavorevole, l’origine di eventuali contagi. Per lo stesso motivo è in genere bandito l’uso di laboratori e aule con strumenti manipolabili (informatica, musica, scienze, arte…), a meno che non si riesca a provvedere alla loro periodica sanificazione. La ricreazione avviene in aree delimitate per ciascuna classe e aumentano i turni della mensa per le scuole con molte classi. Le ore di sport si svolgono principalmente all’aria aperta ma, in vista dell’inverno, si stanno studiando modalità per consentire l’uso della palestra conciliandolo con le esigenze di sanificazione: è prevista una turnazione per usufruirne. In classe non si presta nulla e non si lascia nulla, le famiglie devono controllare che i ragazzi abbiano tutto (il nostro nuovo, divertentissimo rito serale) e, in generale, è richiesta agli studenti una maggiore responsabilità. E, in sempre più istituti, si materializza un nuovo e inedito spauracchio: l’Aula-Covid!

Questo per ora, finché la didattica in presenza sarà possibile. I dati degli ultimi giorni non inducono all’ottimismo; tuttavia, nella sciagurata eventualità in cui si dovesse ritornare al lockdown, per quest’anno scolastico la famigerata DAD (didattica a distanza) sarà sostituita dalla DDI (didattica digitale integrata): questa, a differenza della DAD, non ha più il carattere dell’emergenzialità ma è qualcosa di più strutturato ed organizzato, con regole predefinite a cui tutti i docenti dovranno attenersi, per non farsi cogliere impreparati e riprogettare l’attività didattica per ogni istituzione scolastica, facendo tesoro delle abilità informatiche acquisite, in tempi compressi e spesso in modo non strutturato, durante il lockdown. Già ora, comunque, alcune piattaforme scoperte nei mesi di DAD continuano ad essere utilizzate per lasciare compiti o comunicazioni scuola-famiglia. Ma soprattutto, e per fortuna, non ci sono più quelle chilometriche chat che intasavano Whatsapp i primi tempi del lockdown: la cosa di cui io e mia moglie sentiamo meno la mancanza, a pari merito con le canzoni dai balconi.

(Padre, madre e due figli)