Sembrava che tutto in questo maledetto virus fosse anomalo. Regolarmente chi era completamente guarito da tempo e sieropositivo, cioè aveva gli anticorpi anti coronavirus (quelli nel sangue, misurati con vari test in commercio), veniva e viene ancora accolto con diffidenza, a dir poco! O addirittura con sospetto e paura da molti. Alla comunicazione di essere sieropositivi, seguivano e seguono passi indietro dei presenti, emarginazione dell’”appestato”, e altro! Inutile la voce di chi, con qualche esperienza, si mostrava sorpreso.

In periodi di carenza di tamponi, e con continuità fino ad oggi, subito il sieropositivo, senza distinzione di quando aveva avuto la malattia, veniva messo per legge in quarantena fino al tampone negativo …. dove a volte doveva rimanere per molto tempo! Il risultato immediato è stato che i test di sieropositività non sono stati fatti in numero utile da chi pensava di aver avuto la malattia, test che avrebbero aggiunto informazioni preziose per tracciare un quadro epidemiologico sul territorio.

Sembrava, per di più, che l’immunità data dalla malattia da coronavirus fosse passeggera o addirittura inesistente.

Tutto questo succedeva e succede perchè era maturata l’idea che il virus, oltre a persistere per mesi nell’organismo anche nelle persone guarite, non generasse neppure immunità duratura. Si arrivava inevitabilmente a considerare contagiosi i guariti, i quali avrebbero per di più potuto contrarre nuovamente la malattia come non l’avessero già avuta.

Il primo punto sembra essere stato chiarito: il virus persiste a lungo ma la carica virale che la persona può trasmettere diminuisce costantemente, una volta superata la malattia.

Sull’immunità che, a differenza di quanto in genere accade per altri virus, non si acquisirebbe per il Corona virus, cioè la protezione che non fa più ammalare, in molti in verità, qualche dubbio lo avevano da tempo, ma tacevano. Poi ultimamente ma timidamente le cose hanno cominciato a cambiare.

Per cominciare, ci sono state osservazioni nella seconda ondata, sull’ incidenza molto minore nelle zone di Bergamo e Brescia, riportata da alcuni giornali, poi dati e risultati, più ampi, divulgati il 4 novembre dalla rubrica del Tg3 Leonardo.

Le motivazioni del perchè il coronavirus potesse comportarsi diversamente dalla maggioranza di altri virus non dissimili, erano in verità poco convincenti. Certo, ci sono alcune ragioni che avevano indotto a pensare a un differente comportamento, che però non approfondiamo in questa sede.

Vero è che non ci si può limitare agli anticorpi in circolo o meno per valutare l’immunità acquisita. Da molto tempo si hanno altre conoscenze. E stupisce che non si fosse pensato di guardare alle cellule del sistema immunitario che custodiscono la memoria immunitaria, le cellule della memoria, appunto, quelle responsabili della protezione che si instaura a seguito della malattia infettiva. Sono le cellule dunque da considerare, non gli anticorpi che sono espressione delle cellule ma transitori.

Così abbiamo dovuto aspettare la notizia che è arrivata sul New York Times, una notizia che comincia a collocare il coronavirus in una prospettiva, diremo, più in linea con le sue caratteristiche. Si parla di “nuovi risultati promettenti derivati da una estesa sperimentazione sul coronavirus” . Il titolo dell’articolo recita “L’immunità al coronavirus può prolungarsi per anni”. E addirittura poi si dice che “i ricercatori hanno individuato una risposta immunitaria potente, secondo quanto ottenuto da campioni di sangue provenienti da pazienti guariti dal Covid-19, tanto potente che potrebbe prolungarsi per anni, o addirittura per decenni”

Che cosa hanno scoperto i ricercatori del LaJolla Institute of Immunology insieme a quelli della University of Washington? Che se anche gli anticorpi in circolo diminuiscono, restano comunque, anche per il Coronavirus, le cellule della memoria nell’organismo. Si mostrano d’accordo con questi risultati anche gli studiosi della University of Arizona e della Yale University.

In tutti i casi, non di anticorpi ma di cellule della memoria si tratta.

Lo studio, sottolineano modestamente gli autori, non è stato ancora convalidato dalla peer review. E noi aspettiamo con fiducia che lo sia.

(Carla Cardano)