In un periodo (purtroppo) caratterizzato da ricordi e celebrazioni, è d’obbligo ricordare una figura come Enzo Bearzot, il grande “Vecio” del calcio italiano, scomparso dieci anni fa, il 21 dicembre 2010, all’età di 83 anni. Friulano, prima giocatore e poi allenatore, Bearzot, oltre ad aver guidato la nazionale alla conquista del mondiale di Spagna (1982) è l’unico commissario tecnico ad aver condotto gli azzurri in tre edizioni (1978-82-86) e ad aver collezionato ben 104 presenze sulla panchina italiana. Ma non sono questi record, a dar la cifra del Vecio, uomo di un’altra epoca, nel senso migliore del termine.
Amava il calcio, ma era anche un uomo di cultura, appassionato di storia e di jazz, capace di lucide innovazioni senza assumere quel ruolo da profeta che piace a molti suoi colleghi. Fu il Vecio a lanciare Rossi e Cabrini ai mondiali del 1978 e fu sempre Bearzot, nel 1982, a richiamare in nazionale lo stesso Rossi che veniva da una lunga squalifica per il calcio scommesse. Bearzot era così: tutto di un pezzo. Nonostante le critiche, gli sberleffi (indimenticabile il Processo del lunedì di Biscardi durante la prima fase del Mundial di Spagna) e alcune prestazioni non certo impeccabili di Rossi in quelle prime partite, Bearzot non arretrò di un millimetro dando sempre fiducia al suo centravanti. Difendendolo anche quando sembrava indifendibile. In Spagna, trasformò una squadra di calcio in un gruppo vincente e i fatti gli diedero ragione: Paolo Rossi diventò Pablito e l’Italia vinse il terzo mondiale della sua storia. Un’impresa memorabile, fortissimamente voluta da Bearzot, il Vecio dal cuore grande e l’occhio lungo. E che, a fine 1982, permetterà al centravanti di mostrare a tutti il trofeo di calciatore più forte del pianeta, il Pallone d’Oro.
Il 21 dicembre 2010 ci lasciava, senza aver mai, nemmeno per un attimo, abusato del successo, senza mai vendicarsi di chi lo mise alla gogna. Un “hombre vertical”. Amava i classici latini, i poeti turchi e fu felice della sua scoperta di Hemingway, scrittore dalle frasi secche, sincere, vere. La sua Italia era autentica come la scrittura dell’autore di “Il vecchio e il mare”: pensava alla concretezza, un football fatto di realismo, con lampi di poesia pura. Fu Giovanni Arpino a far diventare Bearzot “il Vecio” nel suo romanzo “Azzurro tenebra”.
Enzo amava parlare dei suoi “splendidi ragazzi”, di quel “gruppo di valorosi”. E aveva un figlio prediletto: Paolo Rossi, il suo Pablito, che ci ha lasciato appena quindici giorni fa.
Bearzot e Pablito rappresentano il nostro orgoglio e la nostra nostalgia. Resteranno per sempre due stelle: così piene di luce e di bellezza, di chi ama il calcio come fosse poesia.
Ora ci piace pensarli insieme, il Vecio e il suo Bomber. Stretti in un abbraccio senza fine tra una partita a scopone e due chiacchiere sui quei gol che “fecero piangere il Brasile”, come recita il libro con il quale Paolo Rossi ci ha lasciato la sua autobiografia.
(Tiziano Conti)