“Non avevo nè albero nè presepe, l’unico dono era mangiare bene il giorno di Natale” (Luisa, classe 1909). Il modo migliore per rivivere quei Natali così lontani dal consumismo è quello di chiedere a chi, nei primi del ‘900 era bambino. “Nostro padre, prima del Natale, andava al mercato e vendeva una gallina del suo pollaio per comperare il baccalà per la Vigilia, dei mandarini e delle arachidi: i nostri regali di Natale da dividere in parti uguali, così non litigavamo”. Il cibo, dunque, era il vero regalo. Cibo “esotico” come gli agrumi e la frutta secca.

Nelle campagne romagnole la Vigilia era molto sentita: molti grandi, affrancati dal lavoro nei campi, digiunavano, mentre ai bambini era concesso mangiare qualcosa, ma senza esagerare. Intanto le “arzdòre” preparavano la tavola, mentre nel camino si bruciava il ceppo di legna benedetta dal parroco: un bel pezzo che bruciasse fino a Capodanno. Le donne più anziane lo percuotevano per predire il futuro dalle scintille. Notte magica, di Mistero, di Fede. Era anche la notte per tramandarsi, oralmente, formule magiche e riti propiziatori, in gran segreto: da suocera a nuora, da madre a figlia.

Tutto ruotava attorno alle mura della cucina. Era la dimora dello Spirito del Natale, oggi disperso nelle cittadelle dello shopping. Attorno ai bei fianchi delle donne di allora, al tepore del camino e della famiglia si sono fermati i ricordi più vivi dei bimbi del tempo, che non conoscevano Babbo Natale “Perché una volta veniva solo la Befana e se non eri buono portava davvero il carbone”. Odori e sapori che si spargevano nell’aria solo in quei giorni, contribuendo a renderli speciali anche per quelli che con i preti proprio non andavan d’accordo.

Erano tanti, nella Romagna anarchica, socialista e repubblicana. Il brodo di cappone o manzo per i caplétt (i cappelletti), il cotechino con il purè e l’uva passita “che porta bene”. E se non c’erano i cappelletti bastava un po’ di manzo per fare il brodo per i tajadlìn (“tagliatellini” ricavati da una sottile sfoglia). I passadê, di solito, si tenevano per il Capodanno, cotti nel brodo di gallina. Dei cappelletti ce n’erano due versioni: una più “light” con ripieno a base di ricotta, formaggio secco “grattato”, uova e noce moscata; ed una da “gran signori” con lo stesso ripieno «rinforzato» da carne di vitello (filetto), maiale (lonza e mortadella) e tacchino rosolato al burro (fonte: «sabato sera» del 26 dicembre 1964).

Cappelletti in Romagna (foto di Lungoleno da Wikipedia)

La vigilia di Natale se non si digiunava si cenava con il pesce: baccalà in umido e arrosto e, per chi viveva nella “Bassa” c’era anche l’anguilla: “La si appendeva al soffitto della cucina per farla asciugare. Metà anguilla si cucinava in umido col prezzemolo, metà sulla brace. Bisognava girarla sempre, e ungerla con l’olio, con una penna d’oca”.

Qualcuno aspettava la messa giocando a carte e mangiando marö aròst o le brustoline oppure, ancora, i lupini salati (magari leggermente bagnati con il vino). Il pane, poi, era quello buono. Bianco, profumato e abbondante “Che se mancava a Natale voleva dire che mancava tutto l’anno”. Pane e vino: per completare la simbologia della Comunione: Senzvës e Albêna, dalla botte più buona, conservata per la festa. E anche il vin brulè: il buon Sangiovese condito con zucchero, cannella, chiodi di garofano e scorza di limone: “Mettevamo a bollire il paiolo per tempo, così potevamo bere dopo la messa”, per scaldarsi un po’, perché alla funzione si andava a piedi o, per chi l’aveva, con la bicicletta. Magari mettendo una pagina di giornale sotto i vestiti, per proteggersi dall’aria. Poco elegante, forse, ma tanto era il giorno dopo che si “rinnovava” un capo di vestiario perché, si dice ancora oggi, porta fortuna.

Chi aveva le bestie, quella notte le trattava da regine. Forse in ossequio alla tradizione del presepe inventato da San Francesco, o forse per superstizione: qualcuno diceva che la notte di Natale gli animali parlassero fra loro, e allora era meglio farle mangiare abbondantemente “Così parlavano bene del padrone”. Dopo la bella mangiata si tiravano fuori i mazzi di carte e si finiva il vino.

E quando era tempo di andare a dormire, con la pancia almeno per quel giorno piena, nei letti riscaldati dagli scaldini (il prete e la suora) si ricordava così l’arrivo di Gesù ai bambini:
Scólta, Scólta, Rosafiòr
l’è nassù nostar Signòr
l’è nassù in Betelèm
sin fra un bò e un asinèl
senza fassa né fraiòl
da fascè Gesù d’amòr

(Ninna Nanna faentina)

(Pierangelo Raffini)