È un periodo dove tutto è al contrario: i baci e gli abbracci sono diventati armi letali e l’unico modo per dimostrare ai tuoi cari il bene che gli vuoi, è starci lontano il più possibile.

E quel termine inglese lockdown, che quando esce ti raschia la gola, rimane per qualche decimo di secondo spezzato e quasi fatichi a ricomporlo. Una parola che a pronunciarla da sola ricorda i film sull’olocausto, anche se non è tedesca, anche se non ne conosci la traduzione letterale; è l’impostazione che ne determina il senso. La tv la ripete continuamente e, tutte le volte, ho un piccolo sussulto; possibile che non mi sia ancora abituata?

Abito in campagna per cui dovrei essere contenta: non devo cedere il passo, non devo fare le file, preoccuparmi dei condomini. Posso restarmene all’aperto finché voglio, nessuno mi fa la multa. Eppure quando mi fermo a scrutare l’orizzonte, preceduto dai campi seminati, dagli alberi da frutto allineati come soldati, mi prende l’angoscia. Mi sembra di essere sola al mondo, in un pianeta disabitato come in un libro di Asimov. Nel vuoto riecheggia solo l’abbaiare dei cani, gli uccelli spiccano il volo e a tratti si riposano sui fili elettrici, mi osservano, scrollano le ali, non mi temono e allora per calmare l’affanno ritorno dentro.

Sono i gesti semplici a diventare importanti: la tazza della colazione che deve essere la più bella, quella con il fiore e gli svolazzi dorati, i biscotti che conto, altrimenti domattina la bilancia mi farà notare la trasgressione. Quando il caffè gorgoglia ne percepisco l’aroma in ogni stanza, me ne rallegro, ad alta voce dico allora non ce l’ho il covid 19 e lascio vagare i pensieri dentro la routine dove trovo conforto, mi crogiolo nei presagi e nei ricordi.

Poi i dialoghi al cellulare per esorcizzare la paura, riportare le parole del virologo di turno, discutere sui numeri, ingigantirli per stupire anche se non ce ne sarebbe bisogno.

La sera arriva la telefonata di mio figlio che s’informa sulla mia salute e, prima di chiudere mi passa mio nipote che ha quattro anni e mezzo.

«Ciao Riccardo, come stai tesoro? Come ti va?»
«Bene… adesso la mamma è sempre qui, lavora a casa…».
«E tu sei contento?» Silenzio dall’altra parte.
«Sì, sono contento… anche babbo lavora poco… giochiamo sempre».
«Ma che bello! Non ti mancano i tuoi amichetti?».
«Un po’…» pausa «mi manchi tu nonna», e allora devo controllarmi per non incrinare la voce, che poi se ne accorge.

(Nadia Giberti)