Sono passati ormai otto giorni da quando il tampone molecolare ha dato esito positivo. Sia io che mio marito abbiamo lo stesso verdetto. Quindi stanze separate, pasti separati nonostante i 92 mq di casa viviamo due esistenze distinte, sembriamo due coinquilini di uno studentato.

Di sicuro per due come noi abituati a farsi coccole e ad abbracciarsi ogni due per tre, questa distanza forzata non è semplice. Dopo una convivenza di ben 21 anni, quando ci incrociamo per casa, torniamo quei due giovani alle prime armi “prego passa pure tu” poi l’altro dice “no no, c’eri prima tu”.

Ci si guarda negli occhi con quella sensazione di passione che avrebbe voglia di trovare uno sfogo, anche solo tenendosi la mano per un po’. Ma non si può, non ancora, anche perché io sembro passata sotto un tritasassi non ho forza, non ho fame e già solo per questo il mio caso è molto grave. Ho male ovunque dalle dita dei piedi fin su alla punta dei capelli.

In tutto questo però ho scoperto una nuova umanità sia dal punto di vista istituzionale perché incaricati del Comune chiamano per conoscere la nostra condizione, chiedono se abbiamo bisogno di spesa o medicinali, poi anche a livello condominiale. Tutti ci hanno fatto sentire la loro presenza chiedendo se possono essere d’aiuto con spesa o farmacia.

Non so se è il momento non so se è questa strana condizione ma queste telefonate mi riempiono di commozione forse saranno i fumi dei 38,4 gradi di febbre. Dormendo separati ho notato che ci vuole di più per addormentarmi, i minuti passano con una lentezza inaudita così ascolti ogni rumore, ogni scricchiolio.

Ti metti in ascolto e pensi a quanto tempo stai buttando senza poter fare niente. Ora dormo in salotto su un materasso gonfiabile e spesso mi ritrovo a guardare una gigantografia del Monument Valley scattata durante il nostro viaggio di nozze. Mi piace immaginarmi ancora lì, con quell’aria calda che ti accarezza il viso e quelle distese infinite da togliere il fiato.

Così penso che questo 2021 sarebbe stato l’anno del tour del Midwest degli Stati Uniti, i grandi laghi, le città dei motori come Detroit, Indianapolis.

Mancano le ore al pc tra la ricerca del volo migliore e lo studio dell’itinerario.
Manca il countdown sul calendario dei giorni che rimangono alla partenza, come si faceva da piccoli per le vacanze estive.
Manca pianificare la valigia incorporando anche un sacco di “non si sa mai”.
Manca puntare la sveglia presto la notte prima di partire, così presto che alla fine sei talmente euforico e allo stesso tempo ansioso di non svegliarti in tempo che quasi non chiudi occhio.
Manca entrare in aeroporto e cercare il gate, girando a vuoto nel duty free con gli occhi che si alternano tra l’orologio e il tabellone delle partenze.
Mancano le ore infinite di volo seduti in quei posti spesso claustrofobici, l’attesa del cibo scadente come fosse il pranzo di Natale ma che sa già un po’ di America e la selezione infinita di film e giochi con la promessa di un “adessodormounpochino” che poi non avviene mai.

Così questa situazione, questa febbre che non mi abbandona mi fa rivivere quelle sensazioni e io cerco di farmi forza perché sono stanca di stare così, sono stanca di essere un vegetale o sul letto o sul divano. Voglio vedere la luce in fondo al tunnel voglio essere libera di girare ma ora, anche solo questo pensiero, mi rende ancora più stana di prima. Chiudo gli occhi abbandonando quei colori vividi della Monument Valley e sento una lacrima solcarmi il viso e penso che no, non è nostalgia, è solo questa febbre che si deve sfogare.

(Francesca Zanotti)