II Carnevale è sicuramente una delle feste più sentite in Romagna come in molte parti d’Italia e del mondo. Quest’anno non lo potremo festeggiare in tutto il suo entusiasmo e collettività a causa della Pandemia, ma non mancherà la parte sicuramente gastronomica e rimane l’aspetto storico e culturale.
Collocandosi temporalmente fra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, era nell’antichità interpretato come tentativo di risvegliare la vita, legata ai raccolti, al termine della stagione fredda. Non per nulla gli antichi greci lo celebravano in onore di Bacco, dio del vino e della vita.
Proprio questo legame alla terra e quindi alla vita, faceva del Carnevale – nel passato – una festa in cui si esprimeva la volontà di sovvertire l’ordine sociale e naturale e per questo a tutti era concesso di mascherarsi ed inventarsi una nuova identità per un giorno di pazzia, una specie di “orgia vitale” nella quale i defunti si sarebbero misteriosamente mescolati ai vivi.
La tradizione cattolica poi la trasformò nel periodo di feste allegre e spensierate che precedono la Quaresima.
In Romagna il costume tipico del Carnevale era un camicione bianco, che veniva indossato in rappresentazione proprio delle anime dei morti. Questa maschera veniva chiamata “la vecchia” e, soprattutto i giovani contadini, andavano in giro per le case così bardati ricevendo offerte di cibo e vino – abbondante – con cui prendevano sbronze mirabolanti. Nel nostro territorio ancora oggi esistono le tradizionali feste della “Segavecchia” – molto sentite – con cui si conclude il Carnevale.
Su questa festa, ma non è l’unica, ci sono attinenze con le tradizioni celtiche ancora vive in alcuni paesi nordici o anglosassoni.
Durante tutto l’Ottocento e nei primissimi decenni del Novecento, il Carnevale era una festa continua durante la quale le attività preferite erano le maschere, i corsi di recite e le feste da ballo. Questa usanza era comune a tutta l’area romagnola e, particolarmente nell’entroterra, nei piccoli centri affollati per l’occasione da giovani contadini che partecipavano alle feste e scorrazzavano per il paese col solo intento di divertirsi il più possibile sfogando, in tal modo, la sofferenza di una povera vita quotidiana caratterizzata da lavoro e stenti.
Dal punto di vista del cibo il periodo di Carnevale era caratterizzato dalla frequenza con cui si mangiava, molte fonti storiche dell’Ottocento e dei primi del Novecento riportano che “…il martedì grasso si mangiava sette volte anche se durante l’anno era difficile unire il pranzo alla cena”.
La Romagna è veramente particolare da questo punto di vista e, come si può rilevare dai racconti dello Stecchetti, a volte veramente minuziosi nel riportare quantità e tipologia del cibo.
Le occasioni di festa erano fantastiche opportunità per pantagrueliche mangiate, fossero il Natale, il Carnevale o un matrimonio. Il fatto poi che venga riportato da più fonti che “si mangiava sette volte” non deve stupire perché, al di là della veridicità o meno di queste affermazioni – se non erano sette erano cinque o sei e il 7 è un numero caratterizzato da una forte valenza magica e simbolica in Romagna.
Dal sabato grasso al martedì il Carnevale viveva il suo momento culminante e coinvolgeva tutti, dai più giovani ai più anziani, si mangiava abbondantemente piadina fritta, salciccia, carne di maiale in genere e dolci.
Oggi sopravvive soprattutto la tradizione dei dolci, quasi tutti fritti in olio o nello strutto, tra i quali possiamo citare tra i più “famosi”: i raviolini variamente ripieni, le sfrappole, le tagliatelle fritte e le castagnole. Ma, ad esempio, un tempo l’ultimo giorno di Carnevale era tradizione mangiare la gallina più vecchia del pollaio, perché altrimenti – si diceva – sarebbero morte anche tutte le altre.
Il Carnevale quindi era il sogno di abbondanza e prosperità, l’unica vera opportunità per poter sfogare la propria rabbia di povertà e la propria fame di pane. Inoltre, un altro motivo che incentivava a mangiare molto per questa festa era dato dal periodo che seguiva il Carnevale.
Alle dieci di sera dell’ultimo giorno del Carnevale, veniva infatti suonata una campana che con i suoi rintocchi avvertiva che ci si doveva affrettare a mangiare la carne rimasta, perché a partire dalla mezzanotte si sarebbe entrati nel periodo di Quaresima, un lasso di tempo caratterizzato dall’ astinenza dalle carni, allora diffusamente e rigidamente praticata. Da quel momento infatti si “appendeva la padella al chiodo” per poi riutilizzarla solo con l’avvento della Pasqua.
(Pierangelo Raffini)