Uffa! E poi fa un caldo che si crepa. Mi sono anche dimenticato di gonfiare bene la ruota di dietro e adesso sento tutti i sassi. Uffa! Mia nonna dice che devono asfaltare la via Gambellara, ma secondo me si sbaglia: cosa vuoi che asfaltino se non passa mai nessuno. Ecco, nessuno a parte questo vecchio carro di legno di Gigetto. Anche i due buoi sono di Gigetto: uno si chiama Il Moro (quello con più macchie scure sulla groppa) e l’altro è E Vec. A me sembrano vecchi uguali e molto stanchi.
“Ciao Gigi”!
“Do’ vet Banì?
“Vado da mia zia Izza. All’ospedale”
Perché, stet poch’ bè?
“No, no. Sto bene. Vado… a trovarla.”

Ecco là le sbarre che si abbassano, così mi tocca anche stare ad aspettare perché mi sembra di aver visto, là dietro l’alloro, il berretto rosso del casellante: se ti vede passare sotto le sbarre capace che ti corre dietro fino alla porta della ceramica. Ma ve’ là che topa! Anzi due. Un attimo: la bici a terra, dalla tasca il tirafagiolo. I sassi non mancano. L’arma è pronta: forcella di legno di “sirene” tagliata dalla siepe della Maria che per fortuna non ci ha visto (me e Paolo), elastici del “6” che solo il negozio della gomma, là in centro ce li ha, pezza di cuoio rubata dal calzolaio di via Salute mentre Paolo gli consegnava le scarpe da risuolare: la bestia è esattamente tra le due punte del legno e gli elastici sono ben tesi. Parte il sasso e manca di poco, anzi pochissimo quella più grossa: scappano tutte e due. V’é andata bene!

Ecco il treno: é un merci e ci sono anche i carri con i bomboloni. Anche due “Draghe” nuove di zecca. Quant’é lungo. Se sapevo così contavo i vagoni dall’inizio. E’ passato e le sbarre si alzano. Avevo visto bene: c’è il casellante con il berretto rosso: il più cattivo! Sarà meglio che passi sopra le rotaie giù dalla bicicletta se no faccio le ruote quadrate con la gomma sgonfia. Rimonto e approfitto della leggera discesa e arrivo fino al viale Marconi senza pedalare.

Ecco là, dalla ghiacciaia, mio zio Pompilio che si fa dare le due mezze mattonelle per fare i siluri. Gratta il ghiaccio e spinge la “neve”dentro il bicchiere con lo stecco: dieci lire quello piccolo, quindici lire quello grande. A me dà sempre quello piccolo, con la granatina, ma ce ne mette poca … Porca … toccava a me oggi andare a prenderle, le due mezze mattonelle. Am so’ Smeng!. Questa sera prendo due tozze. Uè!

La salita di Becca si fa sentire. Mi fermo all’incrocio con la circonvallazione perché c’è sempre gran traffico. E giù, fino a via Cavour: dentro Santa Caterina c’è sempre un chiasso! Quanti sono! Mia nonna dice che sono gli orfanelli. Gli orfanelli di guerra. Ecco la via Emilia, ancora ricoperta con grosse lastre di roccia: ho detto a mia sorella che sono ancora quelle romane e mi ha dato uno scappellotto. Si è presa un calcio negli stinchi e è andata bene che avevo le scarpe con la suola di gomma. Mi a corso dietro fino al bar Rineo, ma non mi ha preso. Eccolo lì il bar Rineo: se avessi dieci lire comprerei un bel cono tutto di limone! Tutto limone! Eccomi al prato della rocca con i soliti che giocano a pallone: corrono tutti dietro alla palla con degli urli che si sentono fino a porta Montanara. Le solite “porte” segnate con i maglioni posati per terra, così litigano quando un tiro sembra troppo alto…

Attraverso il prato tenendomi a destra e arrivo davanti alla portineria del manicomio. Poggio al muretto la bici e speriamo di trovarla ancora quando esco! Passo il cancello e cammino lungo il vialetto. “Duv’ vet zuvnot?” Deve essere il guardiano, o il portiere, tutto in divisa scura, quasi nera, con il cinturone sorretto da una striscia di cuoio che gli gira sopra la spalla sinistra. Chissà poi perché porta il cinturone se non c’ha la pistola!
“Da mia zia Izza che mi aspetta”.
“Ma lo sai dove sta?”.
“Si, il terzo ufficio dopo l’ingresso.”
“Non fermarti e non parlare con nessuno. Tira diritto!”
E già, perché qua ci sono i matti. Me l’ha detto anche mia zia e le raccomandazioni di mia nonna non finivano più. Che maletta!

Interno Osservanza Imola

Non c’è nessuno nel vialetto che fiancheggia la rocca. Là c’è la porta che mia zia dice essere la “principale”, che era difesa da un torrione che adesso è venuto giù ed è là sotto quel monticello di terra dove si vedono anche un po’ di pietre. Lei dice che è stata un’idea di Leonardo: chi sarà poi stato questo Leonardo … Sono all’ingresso e ho un po’ paura! Speriamo di non incontrare nessuno.
“Ei! giovinotto! Dove vai?”
“Devo andare da mia zia Izza che mi deve accompagnare dal professore.”
” Sei Mauro?”.
“Si.”
“Vieni con me e non ti allontanare. Stammi dietro, che ti ci porto io. Tua zia è dovuta andare nei campi e mi ha detto che dovevi venire. Ecco, la pota è questa. Adesso busso.”

Due colpetti al vetro smerigliato e si sente un vocione “Avanti!” che deve venire dall’altra parte della strada tanto è lontano. “Ecco, professore, è arrivato il nipote della Izza, Mauro.” “Ah, vieni, vieni. Vieni avanti e mettiti qua a sedere. Grazie Ivo, puoi andare. Siedi, siedi.”

Il professore è un omone che non finisce più: il camice bianco che copre il vestito grigio sta abbottonato solo in alto causa la pancia che sembra un pallone. Baffi e barbetta a punta grigiastra e due occhialini tondi tutti d’oro. Si siede dietro la grande scrivania (quant’é grande e tutta coperta di libroni e di pacchi di carte la scrivania), si gira da un lato, verso di me e mi dice di avvicinarmi. Resto in piedi a poca distanza dalle sue ginocchia e sta lì un bel pezzo a guardarmi. Poi alza un braccio e indica col dito il soffitto.

“Segui, solo con gli occhi il mio dito, senza muovere la testa.” Il dito va di qua e di là, un po’ su e un po’ giù poi. All’improvviso, sbatte forte le mani. Io mi prendo una paura che quasi me la faccio sotto… e quasi scappo: Lui mi prende per le spalle. “Stai fermo e guarda il dito”. Riprende il di qua e il di là, il su e il giù e sbatte di nuovo, più forte le mani proprio davanti al mio naso: Questa volta devo aver perso qualcosa …

“Quanti anni hai? Se ben ricordo Izza mi ha detto sette. E un po’ balbetti, ma non sempre. Prendi questo foglio e leggi dove i caratteri sono più grandi.”
“La med ..icina spe…cialis..stica non prev…vede cure spec…cifice…che per inter…venire con eff. eff…icacia quan..do si mani..festa”.
“Bene, quando leggi non balbetti. E’ cosa da poco e con gli anni passa. Quando diventerai un ometto e conoscerai le ragazzine, passa tutto. Vai pure, parlo io con tua zia. Vai pure.”
“Grazie”: non so bene da dove mi esca questo “grazie” mentre mi avvicino alla porta a vetri. Non avevo mai visto una porta a vetri prima d’ora. E quant’é alta. E larga!
“Vai pure che là in fondo c’è Ivo: non aver paura”. Ah, dice bene lui…

La maniglia di ferro è fredda. La abbasso e apro il battente. Esco quasi senza far rumore e chiudo la porta avvicinandola piano piano. Lascio la maniglia e con una leggera pressione mi accerto che si sia chiusa ben bene. Come mi giro, un omone grande come un armadio che peserà un quintale è lì fermo e mi guarda. Indossa una casacca e dei pantaloni grigi, protetti da un grembiale bianco con due tasche, una di stoffa grigio più scura e l’altra gialla.
“Questo dev’essere un matto”. Ho la netta sensazione di essere paralizzato e quasi mi manca il respiro.
Se faccio l’atto di scappare questo mi prende e … Per fortuna, dalla vetrata nel fondo spunta Ivo: “Ue! Frascò, n’et mai vest un ragazò! Lascel pasè cà’io furia. Vieni, vieni, di corsa: non ti fa mica niente. Vieni!”
Mi avvio di buon passo senza perdere di vista “Frascò“, come dice quello là. Quattro finestre, tre finestre, due, una … sono a un passo dall’uscita e da Ivo…

Ecco, sono davanti alla prima finestra. Attraverso i vetri posso vedere il numero che stanno chiamando. A 32. A 32 box 5! Ca… sono io e parto di corsa, attraverso la saletta d’attesa e infilo il corridoio con i box degli addetti: speriamo che ‘sta volta la prenotazione me la prendano se no va a finire che muoio prima della visita.

Con la prenotazione in mano, puntata con l’impegnativa m’incammino lungo il vialetto. Il monticello di terra non c’è più e hanno ripulito quel che resta del rivellino a difesa della porta della rocca (roba di Caterina! o forse un po’ prima di Lei) e in fondo in fondo non c’è più la portineria, ma un chiosco dove una volta ho bevuto un verdicchio non male, profumato e fresco giusto, non come i tanti che te lo servono ghiacciato così sembra acqua fresca. Con me c’era Paolo: ci siamo rivisti dopo tanti anni che quasi non ci si riconosceva. Quante ne abbiamo fatte insieme! Abbiamo anche preso “il sale” nelle gambe (…ricordo ancora il bruciore!) quando eravamo andati a fregare le prugne giù per la stradina dopo via Ravenna, quella che oggi porta alla zona industriale. I prugni non ci sono più, nemmeno la Cogne, con quel palazzone stretto e alto, con i segni delle schegge sulle pietre.

Quanti anni! Adesso la “Gambellara” non solo non si chiama più così, ma è diventata un asso di importante viabilità con tanto di sparti-traffico e la ferrovia ci passa sopra. La campagna non c’è più: case e capannoni artigianali, pietre e cemento. Mi viene da sorridere quando ripenso al “professore dei matti”: me lo rivedo come fosse stato ieri: il baffi e il pizzetto, gli occhiali d’oro e quelle mani che sbattevano proprio quando meno me l’aspettavo. Però c’aveva preso: non ricordo bene quando ma il mio parlare divenne “normale”, non “m’attaccavo più” come diceva mia nonna, la sorella di Izza. Anche i matti non ci sono più. Almeno là dentro …

(Mauro Magnani)