Nell’ottobre scorso apparve in affissione in città un manifesto dell’Associazione Pro-Vita occupato interamente dall’immagine di un feto. Un’immagine accusatoria, crudele, subdolamente offensiva considerato il messaggio complessivamente divulgato. Quel manifesto non passò inosservato e ci furono reazioni che ne chiedevano la rimozione. Imola, come molti altri Comuni, ha un regolamento comunale delle affissioni che vieta l’esposizione di manifesti e pubblicità che veicolano messaggi discriminatori e offensivi ai danni di soggetti sociali. Fra questi le donne. In quell’occasione l’intervento del Comune fu tardivo. Nello stesso periodo in altri Comuni fra cui Roma e Milano è accaduta la stessa cosa. Anche lì si è chiesta la rimozione, attuata tempestivamente. A Roma, a seguito del ricorso degli autori della campagna, il Tar del Lazio ha sentenziato la legittimità del provvedimento dell’Amministrazione capitolina.

Il manifesto della campagna Pro Vita a Imola

A dicembre 2020 sono apparse in alcune città maxi affissioni contro la RU486, meglio nota come pillola abortiva o pillola del giorno dopo. Anche in questo caso è stata richiesta l’eliminazione per la rappresentazione offensiva delle donne che veicolavano. La Regioni delle Marche e dell’Umbria (governi di centro destra) hanno negato nelle scorse settimane la distribuzione gratuita della RU486. Nello stesso periodo in Romagna e segnatamente nei territori di Ravenna, Forlì-Cesena, Rimini sono comparse altre campagne antiabortiste. Tanto che si è costituito un coordinamento per la Parità di genere della Romagna che manifesterà in piazza a Forlì sabato 27 febbraio. Oggi a Imola un’altra campagna meno cruda, mostra un neonato che sbadiglia accanto alla scritta “Io sono per la vita”. Più sottile, subdola, ma dal messaggio antiabortista inequivocabile. Già nel 2020 in epoca di commissariamento del Comune si tenne l’ iniziativa nel Centro Cittadino “VI-FACTOR, scegli la vita e vola con noi”, un talent per la Vita.

Il persistere ostinato di queste iniziative si inserisce in un’offensiva in atto da anni e recentemente intensificata, contro i diritti delle donne.

Le donne fanno paura, o meglio, la loro determinazione a scegliere il proprio percorso di vita, ad avvalersi dei diritti che la legge, in primis la Costituzione, ha loro riconosciuto è mal tollerata. Fa paura la libertà di decidere, l’esercizio di autonomia e indipendenza, l’empowerment di genere. A chi? Ai cultori della cultura patriarcale, humus di secolari discriminazioni, terreno valoriale del potere del maschio sulla femmina, del rapporto di subalternità sancito con gli stereotipi di genere, del controllo sul corpo delle donne. Questa cultura, propria di un sistema sociale e politico che riproduce il cosiddetto gap di genere, è particolarmente cara allo schieramento politico di destra. Ricordate il popolo delle famiglie e il disegno di legge Pillon? Eravamo nel 2018, l’anno del Convegno a Verona dove si svolse una grande manifestazione nazionale di protesta sui razionali di quella proposta di legge. La cultura patriarcale è strutturale nel nostro sistema. Non fanno eccezione i maschi di altro orientamento politico. Solo che stanno defilati, non prendono la parola. Al massimo esprimono solidarietà. Meglio che niente, ma largamente insufficiente perché il superamento del gap e della disuguaglianza di genere, ha bisogno anche degli uomini. Di quelli che dichiarano di volere un cambiamento radicale di sistema. Più giusto, paritario, più uguale per tutti. Le disuguaglianze sono connesse tra loro. Decine di studi lo dimostrano indicandole come un ostacolo allo sviluppo sociale ed economico. Finalmente in questi giorni a Biella, Uomini in scarpe rosse, il primo flashmob di soli uomini contro la violenza sulle donne, grazie a una provocazione su La Stampa di Milena Gabbianelli.

Il Sindaco Panieri al banchetto di Pro Vita

Lo scivolone di Panieri

 Nei giorni scorsi a Imola il Sindaco eletto da uno schieramento di centro sinistra concede l’atrio del Palazzo comunale all’Associazione Pro Vita per allestire una mostra antiabortista. In esposizione disegni di bambini e bambine. Non solo, Panieri si fa fotografare davanti ai disegni e al banchetto della medesima associazione reggendo una copia de “Il Nuovo Diario Messaggero”. Inevitabili le reazioni. Insorge la Collettiva Isterica, legata a “Non una di meno”, reagiscono Coraggiosa e il Pd maggioranza di governo del sindaco, protestano la “Rete delle donne di Imola” con un post su facebook e 10 donne che firmano una lettera al sindaco e alle assessore sulla decisione dell’Amministrazione comunale. Proteste pienamente condivisibili.

Il Sindaco di Imola rappresenta uno schieramento per lo più laico, eletto su un programma elettorale che include impegni concreti per la parità di genere, e si dice progressista. Come può appoggiare e legittimare una Associazione di matrice ideologica e integralista che mette in discussione diritti previsti da una legge dello Stato? E lo fa colpevolizzando le donne che decidono (esercitando un diritto riconosciuto) della propria vita e del proprio corpo.

Dovrebbe al contrario adoperarsi per la corretta applicazione della Legge 194/’78 sull’interruzione volontaria della gravidanza. Tanto più che ha la delega alla sanità in un territorio in cui su 11 medici del reparto Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale 4 sono obiettori. L’obiezione di coscienza si è rivelata in questi anni, con altissime percentuali in diverse regioni (70-90%), lo strumento di vero boicottaggio della legge, contro le donne. La legge prevede che il servizio sia comunque garantito. E’ sicuro il Sindaco di questo? Il Consultorio, servizio fondamentale per l’applicazione della legge, è stato progressivamente depotenziato. Ad esso sono affidati il compito di assistenza e supporto alle donne che decidono di abortire, l’azione di prevenzione e la promozione dell’educazione sessuale dei giovani. Come si attiva per potenziarlo?

Con la posizione assunta Panieri ha di fatto negato il diritto delle donne all’autodeterminazione e a decidere della propria salute e del proprio corpo. L’auspicio è che se ne renda conto.

Non meno grave la concessione dell’atrio del Palazzo comunale per l’allestimento della mostra. L’Italia non è uno Stato confessionale. Ospitare la mostra nella sede di riferimento della comunità territoriale che ha storicamente un valore simbolico condiviso, rinnovato nel tempo con la Costituzione della neonata Repubblica Italiana lede il principio di laicità dello Stato e delle Istituzioni. Un principio che proprio i rappresentanti eletti a suffragio universale dovrebbero garantire. L’ordine simbolico ha sostanziale ascendenza sulla identità di una comunità e ne è il riferimento culturale. Non fanno eccezione le Istituzioni ecclesiastiche, che fondano sulla dimensione simbolica l’aggregazione della comunità religiosa. La richiesta dell’atrio comunale da parte della Curia ha il sapore di fatto di una velata provocazione. Crea un precedente che va chiuso con chiarezza.

Sindaco da soli cinque mesi, Panieri è incorso in un clamoroso scivolone che non ha giustificazioni plausibili. Non l’inesperienza, né la giovane età che semmai dovrebbe consigliare maggior prudenza e minore avventatezza. Più moderazione e meno ingenuità nell’ansia di apparire facendosi  fotografare al banchetto di Pro vita esibendo la copia di un giornale di noto schieramento clericale. Non proprio lo stile di un Sindaco di tutti. Infine, ciliegina sulla torta, è riuscito a suscitare il dissenso di gran parte della maggioranza  che lo sostiene smentendo parte del programma condiviso e ad esporre maldestramente la sua Giunta. Un capolavoro politico che oltretutto erode la sua credibilità e affidabilità, certamente verso molte donne della città.

(Virna Gioiellieri)