Nel mese di gennaio è successa un’ evento che ci deve preoccupare. Si può ritenere più o meno giusto censurare un Presidente in carica di una nazione? Le limitazioni alla libertà di espressione di un politico eletto non sono come quelle di un privato cittadino e certe decisioni non dovrebbero essere prese da aziende private che operano in regime di sostanziale monopolio, aziende che per di più non sono sottoposte alle regole e alle responsabilità del settore dell’editoria.
Milioni di persone hanno ricevuto minacce su Whatsapp, però se non accettiamo un’intrusione alla nostra privacy si viene espulsi. Zuckerberg aveva assicurato che la piattaforma di messaggistica dopo l’acquisizione nel 2014 avrebbe continuato ad operare in modo indipendente. Ma non è stato così.
Le origini
Proviamo di tornare alle origini di Facebook e di Google, oggi colossi della Silycom Valley, a cui aggiungerei Apple e Amazon.
Shoshana Zuboff filosofa della politica e critica dell’economia politica digitale, si era fatta notare nel 1984 con “In the age of the smart machine” oggi è all’attenzione del mondo intero “The age of surveillance capitalism” tradotto in italiano con il “Capitalismo della sorveglianza”.
L’autrice sottolinea come, attraverso lo sviluppo delle tecnologie, alcune grandi imprese nel settore Google, Apple, Amazon e Facebook stiano accumulando immense ricchezze, tanto da far emergere una nuova forma di capitalismo basata sull’espropriazione dei dati personali dei cittadini, da quelli relativi al lavoro fino ai comportamenti personali.
La Zuboff racconta la vendita dei dati tra le piattaforme digitali e le assicurazioni, le industrie, le industrie dei Big Pharma, alle società della pubblicità, alle società della telefonia e del marketing. Questo nuovo mercato si svolge al di fuori dei circuiti ufficiali.
Nel lavoro della Zuboff emerge un’altra preoccupazione: la capacità di questi colossi d’indurre comportamenti nuovi nelle persone, una minaccia soprattutto dal punto di vista del processo democratico. Modificare dei comportamenti a fini economici può alla fine portare ad un controllo dei comportamenti politici.
Mark Zuckerberg nel maggio del 2007 presentò la piattaforma Facebook, aprendo i social network a tutti. Zuckerberg aveva rifiutato di farsi pagare un servizio che le aziende telefoniche fornivano, la mission era collegare tutte le persone del mondo. Sei mesi dopo verso novembre, lanciò il suo programma di punta per la pubblicità, Beacon, che avrebbe condiviso automaticamente tutte le transazioni dai siti partner con tutti gli amici di un’utente. Questi post sarebbero apparsi anche se l’utente non fosse stato connesso a Facebook. I cori di protesta degli utenti ma anche quelli di alcuni partner di Facebook come Coca-Cola, costrinsero Zucherberg a fare marcia indietro, a dicembre Beacon divenne facoltativo.
Zuckerberg aveva compreso il potenziale del capitalismo della sorveglianza, ma non aveva ancora compreso la capacità di Google di nascondere le proprie azioni e intenzioni.
Nel quartier generale dell’azienda di Menlo Park l’obiettivo divenne come trasformare in soldi tutti questi utenti.
Nel marzo del 2008 Zuckerberg affidò a Sheryl Sandberg la cabina di comando di Facebook, già capo dello staff di Larry Summers, segretario del Tesoro degli Stati Uniti. La Sandeberg capì che la rete sociale di Facebook rappresentava una sorgente di surplus comportamentale di tutto rispetto. Facebook conosceva genere, età, ubicazione ed erano tutti dati reali. Facebook avrebbe imparato a tracciare, estrarre, immagazzinare e analizzare le Upi (User profile information = informazioni profilo utenti) per costruire i propri algoritmi di targeting = tracciamento.
Sandberg aveva capito che, manipolando ad arte la cultura di Facebook basata su intimità e condivisione, sarebbe stato possibile usare il surplus comportamentale non solo per soddisfare, ma anche creare la domanda. Inserendo gli inserzionisti nel tessuto stesso della cultura online di Facebook, e consentendo loro di invitare gli utenti a iniziare una conversazione.
Instagram e Whatsapp
L’acquisto di Istagram e WhatsApp da parte di Facebook era avvenuto per impedire ai nascenti concorrenti di sfidare il suo monopolio nei social network ma ha impedito ad altri di entrare nel mercato. Dopo essere diventato monopolio, ha aumentato i prezzi e ridotto l’esperienza dell’utente per trarre profitto.
Le denunce delle autorità sostengono che le tattiche anticoncorrenziali di Facebook hanno reso il prodotto peggiore. La prova dei fatti ha origine dell’articolo su Facebook del 2019 della giurista Dina Srinivasan, nella sua analisi ha dimostrato come Facebook abbia battuto My Space offrendo agli utenti un prodotto differenziato con migliori garanzie di privacy.
Dopo aver monopolizzato il mercato ha iniziato immediatamente a diminuire la qualità del prodotto esercitando una forte sorveglianza sugli utenti. Facebook ha compreso il valore di bloccare i propri clienti, arrivando a applicare forme di sorveglianza intrusive quando gli utenti provano a migrare su altri prodotti. L’obiettivo era impedire agli utenti di cambiare prodotto bloccandoli nell’ecosistema di Facebook, eliminando i concorrenti e aumentando i costi di trasferimento. Allora l’azienda mostrava loro più annunci e li spiava, peggiorando l’esperienza dell’utente, riducendo gli investimenti e l’innovazione nei social media, aumentando anche i prezzi per gli inserzionisti.
Questo comportamento è illegale. Negli Stati Uniti c’è la più antica legge antitrust, Sherman Act, entrata in vigore nel 1890 che ha un carattere civile e penale e la monopolizzazione è considerato un crimine di natura civile. Poco prima delle elezioni americane, Facebook ha citato in giudizio i ricercatori della Nyu che cercavano di studiare come funzionava il targetting degli annunci politici dopo il malfunzionamento accidentale del loro archivio pubblicitario.
Ben 18 procuratori generali statali e la Federal Trade Commission hanno fatto causa a Facebook, accusata di avere impedito la competizione nel settore dei social.
La capacità di difendersi degli utenti è praticamente zero, considerando quanta parte dell’economia passa per le piattaforme online, il loro potere di ricatto nei confronti dei cittadini è enorme. Inoltre vorrei ricordare nel caso estremo in cui un politico minacci concretamente il sistema democratico può essere giusto prendere decisioni estreme come quella di toglierli la voce, però non può essere Facebook o Twitter a deciderlo, senza processo e con metodiche da oscurantismo, altrimenti si passa dallo stato di diritto allo stato delle multinazionali.
Ma lo spettacolo a cui stiamo assistendo è una pericolosa deriva capitalistico-autoritaria.
I database rubati a Facebook
Pochi giorni fa un ricercatore israeliano ha scoperto l’esistenza di 533 milioni di profili Facebook in vendita in un forum di hacker. Per ogni profilo sono indicati nome, numero di telefono, email, relazione sentimentale, posizione lavorativa e appartenenza a gruppi Facebook. Solo per l’Italia sono censite 35.677.338 utenze ma sono 108 le nazioni elencate nella raccolta. Nel cluster italiano ci sono molti politici, la sindaca Virginia Raggi, consulenti finanziari, avvocati, giornalisti e manager dei maggiori gruppi editoriali, dalla Rai e RCS, gruppo Gedi. Che Repubblica ha verificato a campione. Si tratta di 12 Gb di dati. Facebook successivamente ha dichiarato alla rivista Motherboard che i dati si riferiscono a una vulnerabilità che la società ha risolto nell’agosto 2019, riferendosi probabilmente a una differente compilation. Prima di quella data Facebook aveva incoraggiato gli utenti a fornire il proprio numero telefonico per aumentarne la sicurezza. E oggi è possibile usare il numero di telefono al posto dell’email per autenticarsi nella piattaforma social.
Il prezzo della privacy
Anche se il dump (scarica, svuotare) dei dati di Facebook e il bot (1) non sono più raggiungibili, è possibile che i dati in esso contenuti siano finiti negli hard disk di delinquenti, mafie, investigatori privati, addetti al recupero crediti. E tutto questo ha un enorme impatto sulla privacy e non solo. (Per “Bot” s’intende un programma autonomo che nelle reti sociali fa credere all’utente di comunicare con un’altra persona umana. Questi bot migliorano di anno in anno ed è sempre più difficile distinguere un bot da una persona”.
Vediamo alcuni di questi usi fraudolenti.
Phishing: con nome, cognome e luogo di lavoro è possibile ricostruire la sintassi dell’indirizzo email del posto dove uno lavora. Conoscendo l’email è possibile realizzare delle campagne di phishing mirate. Una campagna mirata di “email phishing” sarà più efficace nel farci cliccare sul link infetto o fraudolento se l’attaccante conosce la tua data di nascita per farti credere che “Ti stiamo consegnando un pacco per il tuo compleanno.”
Sim Swapping: più grave ancora, potremmo usare nome, cognome, data di nascita, email e telefono per il sim swapping, la clonazione di un numero di telefono. Un prestanome si reca presso un rivenditore di servizi telefonici, dichiara di aver perso portafogli e telefono, ne compra uno nuovo e chiede un duplicato della carta sim dimostrando di sapere rispondere a tutte le domande sulla nostra anagrafica perché le conosce già dopo il furto di credenziali. A quel punto possiamo contattare la rete di rapporti del malcapitato proprietario del numero che abbiamo preso in ostaggio e mandare messaggi via WhatsApp o altro, per agire al posto suo, farci mandare i pacchi postali a un altro indirizzo, richiedere un pagamento urgente, provare a imbrogliare la banca online, eccetera, eccetera.
Secondo i dati di un rapporto dell’azienda di cybersecurity Clario, Facebook possiede il 70,59% di tutti i dati che un’azienda può raccogliere legalmente su ciascuno di noi. Segue Instagram, sempre di proprietà di Facebook, che raccoglie il 58,82% di tutti i dati disponibili. Ecco perché la vendita dei nostri profili online dovrebbe preoccuparci.
(Renato Alberani)