La Romagna è una terra storicamente votata all’agricoltura, attività soggetta alle avversità metereologiche. Per questo motivo la tradizione contadina del passato voleva che – per scongiurare la malasorte – venissero eseguiti dei riti propiziatori come i fuochi magici, in queste terre chiamati appunto i “Lòm a merz” (i lumi di marzo).
L’accensione di falò propiziatori celebrava, e celebra ancora in tante zone di campagna, l’arrivo della primavera e invocava contemporaneamente un’annata favorevole per il raccolto dei campi e la fine del freddo e del rigore invernale. I fuochi che bruciano rami secchi e resti delle potature, fungono da una parte da elemento purificatore, dall’altro evocano ed invocano il calore e la luce della primavera in arrivo che porterà la rinascita della vegetazione.
In questa occasione era tipico radunarsi nelle aie per uno dei pochi momenti di festa e socializzazione. Si cantava, si ballava e si mangiava. Predominante era la presenza di focacce dolci e ciambella, ma non era raro abbrustolire del pane “spazzato” con aglio, l’olio era prezioso, da accompagnare con zuppe condite con i prodotti disponibili al momento. Era certamente un momento di grande festa, e di inizio di qualche amore, accompagnato generosamente dal vino.
Queste tradizioni si sono protratte in Romagna fino allo scoppio della II Guerra mondiale, ripresi nel dopoguerra hanno perso il carattere più ludico. Vi capiterà in questi giorni, transitando in campagna al tramonto, di vedere ancora dei falò che, nell’incedere delle tenebre, assumono una valenza quasi magica e per un pò attraggono il nostro sguardo e la nostra mente. In questo periodo era particolarmente importante la festa dedicata a San Giuseppe che vedeva feste paesane e gite con pranzi e merende nei boschi, sui prati, nelle pinete. Un rito di buon auspicio – di origine celtica – per l’arrivo della bella stagione.
In questi “pic-nic” del tempo si mangiavano uova sode, insalate di campo (crespini, pimpinelle, radicchi, valeriana), magari arricchita con i bruciatini e accompagnato da quel buon pane bianco fatto in casa o con della focaccia. Il tutto annaffiato con bottiglie di vino nero. Una particolarità di questa festa, poco nota, consisteva nell’usanza da parte delle ragazze “da marito”, di osservare la vigilia il giorno antecedente la festa del santo, invocandolo con una curiosa filastrocca “San Jusef, San Jusef, fa si che a feza e pet“.
(Pierangelo Raffini)