Giovedì 21 marzo 2013, Pietro Mennea cominciò a correre nelle praterie del cielo. In questo giorno, che sancisce l’inizio della primavera del secondo anno che ci vede impegnati a resistere ad una pandemia che ha messo in ginocchio il mondo e che ci permette – grazie alle vaccinazioni – di sperare di vedere la luce in fondo al tunnel, è ricorso l’anniversario della scomparsa dell’uomo bianco più veloce nell’atletica mondiale.

Pietro Mennea (Foto Wikipedia)

Quel giorno se ne andò in punta di piedi come quando scattava dai blocchi di partenza, circondato da avversari fisicamente ben più dotati, ma nessuno uguale a lui quanto a determinazione e spirito di sacrifico. “Affamato” di cibo – nei primi difficili tempi – e di gloria lo era davvero l’atleta di Barletta, alla maniera di Steve Jobs che ricorderemo sempre per le sue imprese e la sua frase “Siate affamati, siate folli”. E anche un po’ folle, per quasi due decenni immagine dell’atletica italiana in ogni luogo del pianeta, superando i limiti del nostro “sistema paese”, soprattutto se venivi da un piccolo paese della Puglia, non ancora famosa per le sue bellezze e per le star di tutto il mondo che oggi la scelgono per il loro buen ritiro. Insieme al suo allenatore Carlo Vittori, scomparso due anni dopo di lui, un altro personaggio scomodo nel mondo dell’atletica italiana di allora, poco portato a riconoscere il merito e l’impegno.

Pietro Mennea con Carlo Vittori (Foto Wikipedia)

L’azzurro più veloce di tutti i tempi, con la sua corsa sbilenca ma inarrestabile in progressione, volava con una leggerezza impensata per uno sprinter mentre gli altri atleti, americani, sovietici, giamaicani, sembravano divorare il tartan delle piste d’atletica, forti di muscoli e di potenza. Memorabili restano i suoi duelli con campioni del calibro di Borzov (che ne diventerà un grande amico), Don Quarrie (oro sui 200 a Montreal 1976), Steve Williams (campione del mondo, saltò le Olimpiadi una per infortuno e l’altra per il boicottaggio USA), ma quello che lo fece penare di più fu lo scozzese Wells, costringendolo a Mosca 1980 ad un recupero prodigioso, per vincere finalmente quell’oro olimpico, unico che gli mancava per coronare la sua grande carriera.

Il suo primato mondiale sui 200 metri (19”72, Universiadi di Città del Messico, 1979) è durato quasi diciassette anni, fin quando il Michael Johnson, che molti ricorderanno per quella sua corsa così particolare, col bacino che si avvicinava incredibilmente alla pista, lo migliorò nel 1996, prima ai trials americani e poi alle Olimpiadi di Atlanta. E ancora oggi il record europeo dei 200 è del nostro Mennea, un tempo che sembra irrangiungibile per gli uomini originari del Vecchio Continente.

Aveva Mennea un modo particolare di esultare, dopo l’ennesimo arrivo vittorioso: il braccio destro alzato, l’indice puntato verso il cielo, quasi a voler ringraziare qualche santo in Paradiso, lui che di “santi” in terra ne aveva pochi, a parte Carlo Vittori. Pietro si aiutava da solo, con la dedizione al lavoro di chi sa di dover lottare per preparare e costruire un futuro migliore. “La fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni”, ripeteva nelle interviste.

Due volte si è ritirato dalle competizioni e poi è tornato, per quel fuoco sacro che sentiva dentro per esprimere la sua personalità e i suoi valori di riscatto su una pista di atletica.

Aiutato dalla moglie Manuela, continuò le sue battaglie anche una volta chiuso definitivamente con lo sport.

Plurilaureato, europarlamentare, fondatore della Fondazione Pietro Mennea Onlus, che si occupa di solidarietà sociale e di diffondere lo sport ed i suoi valori, avvocato dei diritti civili, strenuo avversario del doping.

C’è bisogno, oggi più che mai, di modelli positivi: Pietro Mennea lo è stato.

(Tiziano Conti)