Dovevo avere otto o nove anni, quando decisi quello che avrei fatto nella vita. Era da poco finita la guerra e vivevo con i miei genitori in una vecchia casa colonica, in quello che uno scrittore dell’epoca avrebbe romanticamente definito un “ridente paesello abbarbicato sull’Appennino Tosco-Romagnolo”. Se non fosse che Tossignano, dopo il passaggio del conflitto, aveva perso ogni ragione di ridere. Il suo cuore, trasformato in un ammasso di rovine, di fatto esisteva solo nella memoria e fantasia dei pochi abitanti scampati ai bombardamenti.
Sebbene l’aria fosse impregnata di odore di calcinacci e detriti e si respirasse ancora la paura annidata tra i rami della fitta vegetazione, la voglia di dimenticare e ricominciare era tanta. E da dove ricominciare a costruire un futuro se non da coloro che il futuro lo rappresentavano? Fu così che l’unico edificio sopravvissuto allo scempio venne trasformato in scuola. Per una strana ironia, il vecchio macello, luogo dispensatore di morte per eccellenza, diventò il centro nevralgico, simbolo pulsante della vita che rinasceva.
Ogni mattina mi ritrovavo, insieme ad uno sparuto grappolo di bambini, disomogenei per età ed abbigliamento, nello stanzone immenso e scarsamente illuminato che, nel nostro ottimismo, definivamo “aula”.
Ero molto orgogliosa di avere una scuola e, soprattutto, ero orgogliosa di essere un’allieva della signora Silveria Melloni. Adoravo la nostra maestra. Ho ancora impressa nella mente la sua figura alta e slanciata e le mani lunghe e magre, perennemente segnate dalle chiazze di colore lasciate dai pastelli Giotto. Il viso dolce, dai lineamenti fini e regolari, era incorniciato da una massa di capelli castani e ricci che scendevano scomposti su nuca e fronte.
Ora, nella mia memoria annebbiata dagli anni, il suo volto si confonde con quello di Maria, la protagonista del film “Per chi suona la campana”, interpretato da Ingrid Bergman. Non so se realmente le somigliasse.
Di come la maestra riuscisse ad insegnare contemporaneamente ad alunni di età tanto diverse rimane un mistero, non ho un ricordo nitido di come si svolgessero le lezioni. Però, ricordo ancora le poesie che la signora Melloni ci costringeva a imparare a memoria. Si trattava per lo più di componimenti patriottici che lei recitava con lo sguardo rivolto verso il soffitto dell’edificio, come se là, in alto, sventolasse la famosa bandiera bianca di Venezia o fossero assiepati i trecento giovani e forti di Sapri. E sempre nello spirito patriottico si concludeva la giornata di lavoro, quando ci salutavamo sulle note de “La leggenda del Piave” che noi bambini, più che mormorare calmi e placidi, cantavamo a gran voce formando un coro agitato e scomposto.
Silveria abitava a Fontanelice, un comune della Vallata del Santerno, e quotidianamente percorreva in bicicletta i quasi quattro chilometri che la separavano da Tossignano. Una distanza accettabile, se il percorso fosse stato piatto e agevole, pressoché impossibile se si considera la forte pendenza dell’ultima parte, quando la strada si inerpicava fino alla scuola. Non c’era da stupirsi quindi se ogni mattina, la nostra maestra, paonazza e sconvolta, varcasse la soglia della scuola con un forte ritardo.
Inspiegabili, invece, erano quei lividi che spesso chiazzavano il suo viso e, a volte, gambe e braccia. Sebbene lei cercasse di nasconderli dietro a cerotti o pesanti maglioni, non riuscivano a sfuggire nemmeno agli occhi distratti di noi bambini.
A dire il vero furono prima i genitori a porsi delle domande, ma non passò molto che tra di noi, in classe, si cominciasse a parlottare.
Qual era il terribile segreto della maestra? Le voci erano disparate. C’era chi sosteneva che i pomeriggi della signora Melloni trascorressero all’insegna di sport estremi e chi parlava di notti agitate dal sonnambulismo. Un giorno intercettai la madre di una mia compagna riferire ad un gruppuscolo di genitori che Silveria aveva un marito parecchio manesco. Rimasi sconcertata, non tanto per la violenza domestica in sé (purtroppo non insolita nemmeno a quei tempi), quanto piuttosto dal fatto che fosse una persona dolce come lei ad esserne oggetto. Che cosa poteva mai fare di male, per meritarsi simili punizioni?
Poi arrivò quel giorno. Fu in una mattina qualunque, durante una lezione qualunque, che la nostra insegnante, improvvisamente, crollò sul pavimento. Trattenendo a fatica qualche risolino, noi bambini ci precipitammo verso la cattedra.
Il corpo, riverso al suolo, era percosso da violentissime contrazioni, come se la maestra avesse le dita infilate nella presa di corrente e ondate di scariche elettriche la stessero attraversando dalla testa ai piedi. I begli occhi chiari si erano fatti bianchi, rovesciati all’indietro, e un filo di bava le scendeva all’angolo della bocca. Davanti a quello spettacolo, i miei compagni, in un fuggi fuggi generale, corsero fuori in cortile.
Avrei voluto seguirli, l’istinto mi spingeva a farlo, ma le gambe non volevano saperne di muoversi. Non potevo lasciarla là, a morire da sola. Mi chinai su di lei e iniziai a chiamarla. Le convulsioni non cessavano. Anzi, aumentavano. Ad un certo punto, con la mano prese a strattonare l’orlo della gonna, come se lo volesse sfilacciare. Provai a fermarla, ma tutto fu inutile, fino al momento in cui, di colpo, senza preavviso, gli spasmi cessarono e lei si rialzò veloce e, guardandosi intorno, chiese: “Perché sono usciti i ragazzi? Non è tempo di ricreazione!”
Scossi il capo, incapace di parlare. Era il mio corpo a tremare in quel momento.
A quello, seguirono altri attacchi. Sempre improvvisi, anche se non più inaspettati. I miei compagni continuarono a defilarsi, mentre io imparai a tenerle la mano, chiamando dolcemente il suo nome.
Il segreto misterioso della maestra fu così rivelato, anche se la malattia di cui soffriva, di misteri ne racchiudeva molti. Soprattutto in quegli anni in cui di epilessia tutti evitavano di parlare o, al più, parlavano sottovoce. Io, no! Volevo indagare, io. Scoprire, saperne di più, perché… un giorno avrei guarito la mia maestra.
Dopo qualche anno, con i miei genitori, mi trasferii a Bologna e di lei non ebbi mai più notizie. Però non la dimenticai e, al momento di iscrivermi all’università, non ebbi esitazioni.
Ho avuto una vita piena e soddisfacente all’ospedale in cui ho lavorato per tanto tempo. La signora Silveria Melloni non l’ho guarita, ma mi piace pensare di avere aiutato molte altre persone, non lasciandole sole davanti alla malattia.
Proprio come fece una bambina in un sogno dolce-amaro, ormai lontano.
(Lia Giberti Sarti)