Novembre 1993. È una mattina uggiosa, mi trovo sulla soglia di AB tabaccheria (i bolognesi capiranno), ho cinquantamila lire a disposizione. Concerto dei Nirvana o dei Pink Floyd? Penso, rifletto, ripenso. Decido. I Nirvana sono giovani, torneranno, è la mia conclusione. Entro e investo quei cinquanta sacchi sui Pink Floyd, che hanno annunciato quello come il loro ultimo tour. 21 febbraio 1994, i Nirvana si esibiscono a Modena. Sotto il palco ci sono i miei amici. Ci andrò al prossimo giro, penso, seduto da solo a un tavolino del bar Anna.
5 aprile 1994, Kurt Cobain si toglie la vita. Potessi tornare indietro…
E i Pink Floyd? Più o meno è stato come visitare una casa di riposo, mettere un disco sul piatto e dare gli strumenti in mano agli ospiti della casa protetta.

Esattamente vent’anni dopo, aprile 2014, mi trovo a New York, una mattina con un sole primaverile e un vento gelido che rimbalza tra i grattacieli dell’Upper West Side. Mi aggiro tra la Broadway e l’ottantesima strada, l’idea è quella di andare da Zabar’s a prendere un paio di bagels da mangiare a due isolati di distanza, nel grande parco. Davanti all’insegna arancio, simbolo della gastronomia d’elite newyorkese, c’è un uomo, quello che vedete in foto qui sotto. Si ripara dietro un lungo banco di legno, vende libri e ha un sorriso simpatico. Alle sue spalle il traffico della metropoli, davanti agli occhi le signore della zona più ricca di Manhattan. Una sportina con qualche mela lucida e un paio di specialità kosher, 100 dollari e via, come niente fosse. Mi avvicino e inizio a spulciare tra le pagine di quei romanzi, più per curiosità che per altro, per sentire la carta sulle dita. Ad un certo punto la mia attenzione si sposta su un piccolo ritaglio di cartone con una scritta a mano di colore blu: vendo libri di Philip Roth autografati dall’autore.

Oh cazzo. Penso. Mando moglie e figli dentro al negozio a comprare il vitto mentre comincio il rituale dell’indecisione. Non ho dubbi sul fatto che l’affermazione del simpatico signore sia vera. Philip Roth viveva proprio lì, in quel quartiere di New York, prima di ritirarsi nella sua tenuta in campagna. Philiph Roth faceva la spesa da Zabar’s, è risaputo. E comunque, al di là di qualsiasi considerazione, il sorriso di quell’uomo non mente. Quell’uomo lo conosce, Philip Roth, ci ha bevuto assieme più volte, lo capisci guardandolo negli occhi, che non è un cazzaro. Cosa acquisto? Quale o quanti romanzi? Faccio avanti e indietro sul marciapiede, la mano sul portafoglio. Poi il mio lato razionale prevale. Aspetta, mi dico, ma quando mi ricapita un’occasione del genere? Lascio stare e medito qualcosa di più grande. Torno in albergo e spedisco un po’ di mail: amici appassionati, il mio agente, il mio editor di allora… Vado a letto con le ordinazioni sul taccuino. Domani andrò a far spesa, svaligerò il banchetto. Mi addormento con il sorriso sulle labbra, con la prospettiva di tornare in Italia mica con magliette o calamite per il frigorifero, ma con libri autografati da uno più grandi scrittori viventi.

Il giorno seguente sono lì, ho fatto bancomat, la lista della spesa nella mano destra. Io ci sono, lui no, al suo posto c’è un fioraio. Poco male, forse fa un giorno sì e uno no. Ventiquattro ore dopo sono di nuovo lì. Lui no. Comincio a sentire puzza di bruciato. Il giorno dopo mi presento ancora, al posto del simpatico signore ci sono un paio di predicatori di chissà quale confessione religiosa. Il giorno dopo no, non ci sono più io. Sono al John Fitzgerald Kennedy, in attesa di imbarcarmi sul volo di ritorno. La lista della spesa è nel cestino della spazzatura, in valigia ho magliette, braccialetti e un paio di cafonissime calamite. L’unico libro è la Lonely Planet, firmata da mia moglie, non sia mai che la dimentichiamo in un bar.

Il bello del web è che poi tutto torna e ho trovato la storia di quel signore (Enrico Adelman) e della sua amicizia con Philip Roth (che nel frattempo è morto) su questo sito.

Il tempismo è tutto nella vita, e io, va detto, non ne sono fornito.

Corrado Peli

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