Ho vissuto fino a trent’anni in una casa circondata da un grande giardino, sempre attorniato da gatti e cani. D’altronde, mia madre è ancora oggi una gattara e tutte le mattine si reca all’oasi felina del paese ad occuparsi, assieme ad altri volontari, di un centinaio di bestiole. Nella tarda adolescenza mi ero ritagliato una piccola fetta di casa tutta per me (camera e bagno al piano inferiore) e mi ero trovato spesso a condividere la toilette con dei piccoli orfanelli da svezzare. A volte anche ricci, pipistrelli, rondini, e altri sfortunati coinquilini.
Quando, nel 2004, mi sono trasferito in una casa in centro senza giardino, non ho sentito la mancanza di animali. Anzi, il centro mi piace, mi piace l’idea di poter uscire dalla porta (anche in ciabatte) e sedermi sotto casa a bere un bicchiere da Dario. Oppure quando, alle sette e mezza di sera mi viene voglia di mangiare qualcosa che non ho in frigorifero, avere la comodità di attraversare la strada (sempre in ciabatte) e andarmelo a comprare. Pane, pesce, vino, carne, gelati, caffè, tutto a portata di due passi (in ciabatte, se mi va).
Poi sono nati i figli. L’equazione figli=animali domestici è un assioma, qualsiasi genitore può confermarlo. E così, assieme ai primi passi e alle prime parole, è iniziata la richiesta di un animale da tenere in casa.
Alle prime suppliche ho ribattuto con quella che mi sembra la più logica delle risposte: se volete dei gatti andate da nonna. Se volete un cane convincete la nonna. Se proprio volete occuparvi di qualcuno c’è il nonno, che non sta mai fermo.
Ha funzionato per qualche mese. Poi le richieste sono ricominciate, insistenti, accompagnate da feroci trattative sui risultati scolastici. Con la media dell’otto un gatto, del nove un cane, del dieci uno scimpanzè. A quel punto ho tentato di convincerli che quella dozzina di piccioni che infestano la nostra terrazza sui tetti possono diventare i nostri animaletti domestici, basta dargli un nome simpatico. Tutto bene fin quando mia moglie non ha sorpreso mia figlia a lanciare granoturco ai pennuti, con il risultato che la piccola terrazza è diventata come Piazza San Marco, con il pavimento ricoperto da uno strato di guano color verde mimetico. Lavata la terrazza, abbandonati i piccioni al loro destino, è ripartito il pressing. A quel punto ho ceduto, mi sono giocato la carta acquario. Di acqua dolce. Con piante vere, però, e pesci tropicali dai mille colori.
Dal punto di vista affettivo l’acquario dà le stesse emozioni di una conferenza stampa di Andrea Pirlo. Però va detto che l’impegno è alquanto modesto, un pizzico di mangime al mattino e, in caso di vacanza, una mattonella di cibo a lento rilascio. Nel caso dimentichi la mattonella, la natura fa il suo corso, i più grossi mangiano i più piccoli e quando rientri dalle ferie la densità abitativa è crollata, c’è più ossigeno per tutti.
Ma anche l’acquario altro non è che una soluzione temporanea. I pesci non si possono accarezzare. O meglio, lo puoi fare, ma l’esito sarà nefasto. Avanti il prossimo è il momento del criceto. Con il criceto il livello di interazione decolla, la prima volta che ho infilato il dito nella gabbia ho rischiato di perderlo, staccato da due zanne affilate come lamette. Abbiamo avuto due criceti, un maschio e una femmina. Che dire, la femmina stronza e il maschio pacioccone e simpatico, rispecchiano appieno la natura umana. Il problema dei criceti (a parte le dita mozzate) è che passano l’intera notte a correre su una ruota di plastica. Tutta la notte, ma proprio tutta. I criceti, loro malgrado, difficilmente superano i due anni di vita, così sono finiti in breve tempo a concimare il glicine in terrazza.
Dopo due criceti tornare indietro è impossibile. Le opzioni sono due: un pitone o un gatto. Per quel che riguarda il pitone un concittadino ci aveva già provato e non era finita bene (leggete qua https://bit.ly/3eS92eZ).
A quel punto, dopo estenuanti trattative durate un’intera estate, è tornata in pista la nonna gattara. E così, a settembre 2020, mentre montava la seconda ondata di Covid, in casa nostra sono entrate non una, ma due gatte. Due. Femmine. Sorelle. Winnie e Mazie.
Ora non sto a spiegare quello che possono dare due gatte in termini di affetto, calore, divertimento, chi si è attorniato da piccoli felini sa benissimo di cosa stia parlando, sono come figli.
Voglio invece lasciarvi con qualche domanda:
Secondo voi chi si alza alle cinque del mattino per dare da mangiare alle sorelle? Se non lo faccio si infilano sotto le coperte e mordono i miei piedi. Se chiudo la porta grattano o miagolano, non c’è soluzione.
Secondo voi chi pulisce la cassetta dai bisogni?
Secondo voi chi ha dovuto ricostruire la terrazza per evitare che salgano sui tetti e, di conseguenza, raggiungano il bar Anna per la colazione?
Secondo voi chi le ripesca quando finiscono dentro l’acquario? Sì, perché abbiamo ancora l’acquario, colpa di un pesce (simile a un pesce gatto) che non muore mai, ha compiuto undici anni, è più vecchio di mio figlio.
Secondo voi uno come me, che veste quasi esclusivamente magliette e maglioncini neri, ora come fa ad uscire senza ritrovarsi ricoperto da un manto peloso bianco e grigio?
Pensateci bene quando i vostri figli vi chiederanno di adottare un animaletto domestico. Sappiate che toccheranno a voi tutti gli oneri, ma anche che le soddisfazioni saranno più grandi delle fatiche e che, soprattutto, non vi chiederanno mai una felpa di Gucci o un poster di Ghali.
Corrado Peli
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