Aurora aprì la porta e si fermò. Dalla finestra semi aperta entrava una leggera brezza primaverile odorosa di fiori. La tendina di candido traforato lino ondeggiava lieve, come foglia che cade dentro l’alveo del bianco inverno. Non riusciva a togliere le dita dalla maniglia, come se fosse l’estremo appiglio rimasto al naufrago ormai esausto e consapevole di essere giunto sul bordo della fine ma incapace di avvertirne la gelida verità. Ogni cosa era immobile e al proprio posto come se il vento di un’esplosione atomica avesse polverizzato la vita e lasciato intatto solo gli oggetti; un libro, la lampada sul comodino, le medicine, le ciabatte, la vestaglia appesa, le riproduzioni di quadri alle pareti. Assomigliava alla cella del monastero visto tanti anni prima. Il letto, con le lenzuola profumate di lavanda, la coperta stesa perfettamente, il plaid colorato arrotolato in fondo, come se fosse lì da prima ancora che fosse costruita la casa. Il tempo sembrava essersi preso una pausa. E lei non riusciva ancora a trovare il coraggio per varcare la soglia di quell’indefinito esistere che invece continuava a fluire.

Entrò. Lei, la piccola della famiglia, era anche l’ultima a essere ritornata nell’appartamento del padre che adesso doveva essere sgomberato. Ora che lui era stato portato via, si sentiva estranea, una ladra che vìola la profonda intimità delle persone per accaparrarsi di una collanina, un anello, un orologio. Lo sguardo continuava a scorrere sulla stanza, gli oggetti, le cose senza riuscire a trovare un bisogno, un desiderio da soddisfare.

“Cosa restava di lui e del loro passato, insieme?” Riandò con la mente a tutte le fotografie che nel tempo si erano accumulate dentro gli album che con così grande meticolosità aveva, nel corso degli anni, messe in perfetto ordine su pagine di bianco perlate; il ritratto severo in bianco e nero dei nonni, il matrimonio affollato dei genitori sul sagrato della chiesa, le prime piccole foto a colori, i cugini in vacanza sulla spiaggia, sua madre con il fratello maggiore in fasce davanti al giardino della nonna e infine lei in braccio alla madre appena arrivata dall’ospedale, il sorriso estasiato dei fratelli e tutta la sequenza dei compleanni, il primo giorno di scuola, lei e Marco, il terzo abbracciato con dietro lo sfondo di Machu Picchu, il matrimonio con Giuliano, il viaggio di nozze alle Maldive, davanti alla carrozzina di Ester, di Giacomo, alle tavole apparecchiate dei pranzi di Pasqua, i regali sotto gli alberi di Natale. Le rivedeva scorrere come un film muto. Si sedette sul bordo del letto, sentendosi mancare. Sentiva salire il bisogno disperato di piangere.

Sola nella stanza, come priva di sostanza organica, si liquefaceva, conscia di non avere più il corpo che potesse trattenere il disciogliersi di sé nell’infantile pianto che ora poteva scendere sulle pallide guance. Quando l’ultima goccia ebbe invaso il lago salato del suo viso, sentì la mente finalmente vuota. Doveva decidersi. Si alzò. Scrutò gli oggetti della stanza sapendo che il giorno dopo l’appartamento sarebbe stato svuotato e che i suoi fratelli avevano già preso ciò che desideravano tenere della vita del padre. Ma ogni cosa che osservava le sembrava priva di significato e sebbene si sforzasse di trovare in ognuno di loro un suo ricordo, subito dopo esso svaniva e ritornava a essere un manufatto qualsiasi come se fosse esposto sugli scaffali di una vetrina e non fosse appartenuto alla vita di una persona.

L’assenza rivelava l’essenza del padre.

(Testo e disegno di Mauro Conti)