I fili di lana attraversavano la camera all’altezza di un metro e mezzo circa dal pavimento. Partivano legati alle sfere del letto e convergevano nei vari punti della stanza: dalla maniglia della finestra alla porta dello sgabuzzino, dall’armadio ai pomelli del cassettone. La ragnatela colorata rendeva la vita dei due fratellini più piacevole, leniva il vuoto della solitudine. Lo spezzare in altezza lo spazio cubico dell’unico locale dove vivevano infondeva loro coraggio. Il soffitto visto attraverso gli spazi geometrici di quel gioco, era adatto alla loro altezza e salire nel letto per infilare le teste dentro i vuoti li faceva ridere. Avevano tanta urgenza di ridere, poiché la loro età lo pretendeva. Al sopraggiungere del buio le ombre dei fili proiettate nella stanza, disegnavano strani intrecci di strade, creavano un’immaginaria città notturna.
Ettore sette anni, Giovanna quattro, erano soli poiché Alice, la mamma, era da un mese ricoverata all’ospedale di Faenza con una brutta pleurite. Non sapendo come fare, li aveva affidati ai vicini di casa. I vicini li controllavano alla meglio e gli procuravano il cibo di cui avevano bisogno. Come in una favola, la madre prima di partire, aveva raccomandato loro di non aprire a nessuno se non ne avessero riconosciuta la voce. Avevano ubbidito e con dovizia inventato quel gioco di strani rombi e quadrati galleggianti a spezzare i campi magnetici negativi. Gli incroci riuscivano a quietare l’ansia, a calmare il battito martellante dei cuori, a tenere lontano gli adulti. Un Vietato entrare garbato, indecifrabile per gli ignari visitatori che irrompendo nella stanza si ritraevano per non distruggere l’intreccio magico. Il giorno con il riflesso del sole, colori iridescenti si moltiplicavano nelle pareti in un rarefatto caleidoscopio d’innegabile bellezza.
Vivere la quotidianità in un contenitore surreale rendeva l’attesa sopportabile, a volte divertente, senza doversi sforzare di apparire saggi, perché loro saggi non lo erano. Dormivano nello stesso letto sempre protetti dalla carezza della ragnatela fatata, ed Ettore prima di addormentarsi raccontava storie straordinarie alla sorellina. Ogni sera i vicini bussavano nel muro per indurli a spegnere la candela, troppo pericoloso se fosse rimasta accesa. Turbini di folletti penetravano nei loro sogni attorcigliati, s’impadronivano delle piccole menti molestate dal silenzio. Eppure i due bambini amavano rimanere coricati a crogiolarsi nel dormiveglia. Ettore aveva interrotto la scuola per restare con la sorella, per proteggerla come gli aveva raccomandato la mamma. Gli aveva assicurato che sarebbe restata lontano pochi giorni, ma i minuti fluttuanti e lenti erano diventati ore, poi giorni e soprattutto notti.
Il passare del tempo iniziava a tingersi di ricordi: al mattino veloci lavaggi con l’acqua fredda, bicchieri di latte e pasti sempre più frugali. I vicini anch’essi indigenti avevano diradato le visite, per cui Ettore decise che dovevano inventarsi qualcosa per acquietare la fame incombente. Ambedue intabarrati, con i faccini arrossati dal freddo, si avviarono mano nella mano a bussare alle porte dei più abbienti del paese: Il medico che abitava nella piazza principale, il sindaco che viveva in una bella casetta indipendente, il prete, il notaio. Tutto quell’agitarsi, quel bussare e suonare i campanelli diede dei buoni frutti, ma non passò inosservato.
Se ne stavano tranquilli nel letto di ferro, sfamati, quando furono prelevati dalle autorità e portati in collegio a Faenza. Una scena impazzita prese corpo. Provarono a scalciare, urlare, ad aggrapparsi ai fili di lana, ma furono inghiottiti dentro le struggenti storie dei loro incubi.
Quando Alice tornò, aprì la porta dell’unica stanza dove viveva con i figli, restò ammutolita per ciò che vide: il letto sfatto, i fili di lana strappati, buttati a terra, attorcigliati, sfrangiati. Un groviglio scomposto fatto di colori, silenzi, odori. Interpretò lo scempio come un grido d’aiuto. Chi aveva osato profanare il nido, rompere le onde dell’amore?
Chiuse la porta, scese le scale e si avviò a cercarli.
(Nadia Giberti)