Qualche giorno fa mi trovavo a camminare su un ripido sentiero che scendeva verso Portovenere. Mentre controllavo con attenzione dove mettevo i piedi, il tema della discussione, con i miei compagni di viaggio, era Babbo Natale. Ovvero, quando e come avevamo scoperto che il panzone barbuto e vestito di rosso era un bluff. Sì, perché sono argomenti da maneggiare con cautela quando si hanno dei figli, in particolare quando alcuni dei loro migliori amici sono musulmani e su Babbo Natale si fanno quattro sganasciate, che da dove vengono loro mica si crede alle renne e alle slitte volanti.

È per questo motivo che mio figlio, molto in anticipo sui tempi, alcuni anni fa si era bloccato davanti a un piatto di tortellini e, dopo alcuni minuti a rimuginare, si era deciso a mettermi all’angolo.

“Papà, Mohammed dice che Babbo Natale a casa sua non ci va, perché non esiste. È vero che non esiste? Devi dirmi la verità”.

Ora, avrei potuto salvarmi prendendola larga, molto larga, dando fondo alla mia innata fantasia, alla mia capacità di pitturare la vita e renderla meglio di quel che è. Avrei potuto sparare fandonie sui musulmani infedeli, sull’astio covato fin dai tempi delle crociate, sul fatto che Babbo Natale non avesse aggiornato gli indirizzi di quei bambini e li andasse ancora a cercare in Marocco, in Algeria, in Tunisia… Ma in fondo perché dovevo sommare favole ad altre favole? Con quale scopo?

“È vero”. Avevo risposto. “Non esiste. Non esiste lui, non esiste la Befana, non esiste la fatina dei denti e non esiste la cicogna”. A quel punto mi ero fermato. Il piccolo stava lì, con gli occhi sgranati, mentre io non aspettavo altro che dare il via al mio progetto per farlo diventare uomo. Il progetto sbatti i denti contro la verità. “Non esistono gli angeli, non esiste il diavolo, per credere che una persona possa moltiplicare pane e pesci o camminare sull’acqua serve fede, moltissima fede. E poi non esiste IT, l’uomo nero, non esistono i marziani, non esiste un governo che arrivi a fine legislatura, non esiste che il Bologna possa vincere uno scudetto, non esiste che tua nonna si compri uno smartphone, non esiste che il Partito Democratico non si divida ogni due anni, non esiste che a Sanremo vincano i Marlene Kuntz, non esistono gli spaghetti alla bolognese ma se ti piacciono mangiali e fregatene, non esiste la birra analcolica, non esiste…”. Avevo proseguito per almeno un quarto d’ora, fermandomi soltanto quando mi era venuto meno il fiato. A quel punto lui mi aveva fissato e, bello come il sole, aveva tratto le sue conclusioni. “Papà, sui marziani non sono d’accordo e con il ragù solo le tagliatelle”.

Volete sapere qual era stata la causa di quel mio inopportuno slego di verità davanti al mio innocente figliolo? Molto probabilmente il modo in cui avevo scoperto l’inesistenza di Babbo Natale, tanti anni prima.

Quel giorno lo ricordo come fosse oggi. Inizio anni Ottanta, un freddo venticinque dicembre di sole. Mi sveglio, balzo dal letto e corro sotto l’albero con ancora il pigiama addosso. Lo vedo, c’è un pacco, è rosso e verde, è il mio, l’ha portato Babbo Natale durante la notte. Per terra, i resti di una carota mangiucchiata e il bicchier d’acqua svuotato. Aveva ragione mamma, le renne sono sempre affamate. Alle mie spalle sopraggiungono i miei genitori, curiosi quanto me di sapere cosa ci sia dentro quel pacchetto. Lo scarto e già immagino che il mio sogno possa avverarsi. Ed è così, infatti, e non poteva essere altrimenti, perché Babbo Natale non sbaglia mai. Un paio di scarpe da ginnastica Lotto, azzurre con il logo giallo fosforescente, roba che a scuola farò morire tutti d’invidia. Le guardo. Le riguardo. Le giro. Le metto una di fianco all’altra. Le riguardo bene. Le riguardo ancora meglio. Il panico.

“Papà, ma sono due sinistre”.

Mio padre afferra le scarpe, le scruta e gli scappa la frase che avrebbe per sempre cambiato la mia infanzia. “Cristo santo, che palle, devo andare da Fini a farmele cambiare”.

Finiva così il mito di Babbo Natale in casa Peli, con mio padre che, scatole girate al massimo, partiva in direzione Bologna per farsi cambiare le mie scarpe.

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(Corrado Peli)