Imola. Non tutte le zone rosse italiane sono uguali. Alcune dal febbraio 2020 sono sulle prime pagine di tutti i giornali. Sono le case, i Comuni, le Regioni di cui abbiamo imparato a conoscere ogni millimetro durante la pandemia. Queste zone rosse ci hanno racchiuso come in un bozzolo protettivo mentre fuori infuriava questo folle virus venuto dalla Cina.

Ci sono però altre zone rosse nel nostro Paese, strade e quartieri dimenticati in cui da anni è vietato entrare. In cui il tempo si è fermato. Zone rosse in cui da ormai cinque anni non vive più nessuno, la natura è tornata a prendersi gli spazi abbandonati dall’uomo. Sono le zone rosse del sisma del Centro Italia del 2016 e 2017. Strade e quartieri chiusi da quei giorni lontani in cui tutto il mondo parlava di questa tragedia nel cuore dell’Italia. Tutto oggi pare dimenticato, messo da parte con troppa facilità dalla politica e dalle coscienze. 303 morti e più di 41.000 sfollati caduti troppo in fretta nel dimenticatoio. La mente vola subito a quelle strade dell’Irpinia ancora chiuse dopo 40 anni. Ma fortunatamente la parte finale di questo mio viaggio a tappe nel sisma del Centro Italia mi fa sperare che per queste terre, questi Appennini maestosi ci potrà essere un finale migliore.

Il viaggio nella distruzione del sisma del Centro Italia comincia da uno dei luoghi più significativi di questa devastazione, Norcia. E’ forse il luogo migliore da cui partire per questo viaggio nelle aree del sisma, perché a pochi metri l’una dall’altra si possono vedere la speranza della rinascita e l’angoscia della città morta per sempre.

A prima vista tutto sembra rinato. E’ il luglio del 2020, la strada principale è piena di turisti, la maggior parte dei negozi sono aperti, i taglieri traboccano della tradizione norcina locale e riempiono l’aria e il cuore. Ma basta uscire dalla strada principale per accorgersi che qualcosa non deve essere andato per il meglio con la ricostruzione. La via centrale in parte è rinata, ma tutto quello che la circonda è ancora ferito a morte. La rabbia e la delusione degli abitanti di Norcia ha preso la forma di lenzuoli colmi di parole urlate appesi alle case pericolanti e mai ricostruite: “Unica grande opera ricostruire il Centro-Italia terremotato”, “Ridateci le nostre case e le nostre vite”. Su un rudere chiaramente più antico degli altri si legge “La ricostruzione di questa casa è una telenovela che va avanti dal terremoto del 1979”. Crepe sui muri e lenzuoli bianchi appesi alle finestre, questi sono i segni di vita della vera Norcia a pochi metri dalla via principale.

Pur senza morti, Norcia divenne subito uno dei simboli di quel terremoto. E lo divenne in primo luogo per il crollo del suo simbolo più importante: la Basilica di San Benedetto, la chiesa che secondo la tradizione venne costruita sulla casa natale dell’inventore del monachesimo Occidentale e oggi patrono d’Europa. Della Basilica non rimane molto, si è salvata solo la facciata. Una facciata ormai indebolita e sorretta da una lucente impalcatura che sembra quasi un’opera d’arte contemporanea emersa dalla mente di un’artista visionario. Ma purtroppo dell’Arte del luogo rimane poco e questo luogo così pieno di storia sembra un cantiere abbandonato. Anche il Santo, dall’alto della sua statua al centro della piazza, sembra indicare la sua casa chiedendosi che ne sarà di lei. Ma voglio essere fiducioso: la prossima volta che tornerò in questi luoghi rivedrò la basilica com’era, senza dubbio più bella e più forte di prima. Il 22 dicembre 2020 infatti, sono stati ufficialmente presentati l’avvio dei lavori di ricostruzione, nati dalla collaborazione tra ENI e Mibact. Se i risultati saranno all’altezza delle promesse, le macerie risorgeranno più forti e solide di prima. Quanto visto all’Aquila, termine di questo mio viaggio, mi rende speranzoso. Sono certo che una volta ricostruito il suo antico cuore pulsante, tutta Norcia risorgerà irrorata dalla potenza di quel simbolo di fede e cultura. Un simbolo per Norcia, per l’Italia e per l’Europa intera che proprio da qui ha mosso uno dei sui primi passi di unità culturale.

Sono le chiese distrutte gli edifici che impressionano maggiormente, che mostrano con maggiore evidenza la forza devastante di questi terremoti del 2016 e del 2017. L’impressione è quella di una grande lama passata sugli edifici tagliandoli in due, con un accanimento particolare sugli edifici più alti. Questa impressione è resa ancora più forte dalle tettoie e dalle impalcature che sono state costruite per proteggere le mura superstiti dalle precipitazioni che nei mesi invernali in questa zona sono implacabili. L’effetto visivo è quello di un gigante ferito a morte, il cui destino appare ormai segnato in maniera irreparabile. Una specie di Minotauro -Frankenstein architettonico dai piedi di pietra e la testa di lamiera. Un esperimento sbagliato senza futuro.

Mi aggiro per le vie alla ricerca di qualche abitante a cui fare qualche domanda, a cui chiedere informazioni sulla rinascita del loro gioiello ferito nel cuore dell’Appennino umbro. Ma sarà l’Estate, saranno i giorni di vacanze, sarà lo strano caldo di quelle giornate ma non incontro nessuno. A colpirmi sono le porte di alcune case, ed una in particolare. La maniglia di ingresso è stata sostituita con un angelo della morte con la scritta RIP. Sono sempre i piccoli dettagli a parlare con maggiore forza. Poco più in là porte spalancate su case che non esistono più e porte ancora chiuse con i sigilli e le catene messe dalle autorità pubbliche nei giorni della prima emergenza e mai tolti negli anni successivi. Quello che non riesco a farmi dire dagli abitanti di Norcia me lo dicono le porte della città. Porte da cui nessuno transita da più di cinque anni.

Il centro della città, nonostante alcune attività sul corso principale che sono riuscite a riaprire, si è spostato 200 metri fuori dalle mura storiche. Sono molti i cartelli come questo appesi sulle serrande abbassate dei negozi: “La norcineria Ulivacci si è delocalizzata (causa sisma) appena fuori le mura nelle casine di legno”, seguita da una freccia nera ripassata più volte con un grosso pennarello per non lasciare dubbi su quale direzione sia necessario prendere. Quel “casine” tracciato su quel foglio bianco ha un che di dolce e rassicurante nonostante la drammaticità della situazione. Basta uscire di pochi metri dalle mura medievali, anch’esse gravemente danneggiate, per trovare tutte le attività economiche che hanno dovuto abbandonare il centro storico. Il viale alberato lungo il quale queste attività hanno riaperto sembra una collezione di “casette di legno” nate provvisorie ma diventate permanenti. Ad accogliere il visitatore l’ennesimo striscione “Negozi Terremotati del centro storico” che mi ha accolto in tutti i paesi terremotati che ho visitato nel corso degli anni. Tutta la segnaletica è provvisoria nei paesi terremotati. I vecchi cartelli non indicano più nulla. Il più delle volte indicano rovine. Striscioni e fogli bianchi attaccati alla bella e meglio hanno sostituito ovunque la cartellonista ufficiale. In una città provvisoria anche la segnaletica non può essere che tale. Provvisorie come le vite di molti abitanti di queste terre. Un provvisorio che dopo più di cinque anni sembra più solido delle montagne maestose che circondano Norcia.

Basta però entrare nei negozi ospitati dalle casette di legno e sembra che il terremoto non ci sia mai stato, tutto è come una volta. La sensazione di precarietà si attenua, la voglia di continuare a lavorare di questi negozianti “resistenti” ha un che di eroico. Una forza di volontà più forte di ogni sfortuna, di ogni precarietà e dimenticanza. I negozi al loro interno hanno una dignità ed una compostezza che commuove. Questa è per me l’Italia migliore, questo è il cuore di un Appenino che riesce a ripartire dopo ogni tragedia. Mi colpisce in particolar modo un bar, in cui l’arredamento da caffè liberty di altri tempi stona con la freddezza delle assi di legno della casetta precaria. “Eravamo il bar più bello di Norcia” ci dice il barista “abbiamo recuperato tutto l’arredamento dal bar inagibile nella piazza centrale. Eravamo belli e lo siamo ancora”.

Con questi simboli di resistenza e di rinascita si chiude questa prima tappa nelle aree terremotate del Centro Italia. Ci si rimette in viaggio verso i Sibillini e la valle del Tronto, le altre zone colpite in modo devastante da quei sismi. Basteranno due parole per rievocare in tutti voi le tragiche immagini trasmesse in quei giorni da tutti i telegiornali: Accumuli e poco più in là Amatrice. Il viaggio nelle aree del sisma del Centro Italia continua.

(Denis Grasso)