Quando avevo dieci anni mio cugino Riccardo era già grande, non ricordo quanto grande, ma scorrazzava in motorino, si impomatava i capelli con il brylcreem e i pomeriggi li passava davanti al negozio di casalinghi del suo amico Alberto, a commentare il passaggio. Cose da adulti, insomma, mica compiti o biciclette scassate. Lui, però, era soprattutto la mia autostrada verso l’emancipazione musicale, visto che a casa mia spopolavano le compilation di Fausto Papetti sax, che prendevo in mano solo per guardare le copertine con le donne nude, e i gorgheggi di Lucio Dalla, che avrei rivalutato negli anni a venire. U2, Frankie Goes to Hollywood, Simple Minds, i primi vagiti del grunge… era stato pure a qualche concerto, tipo Vasco Rossi o qualcosa del genere. Un giorno lo avevo ascoltato discutere di musica con alcuni amici e quella era stata la mia prima lezione. Di rock e di vita.
“Conosci i Meat Puppets?” Aveva detto mio cugino all’amico, guardandolo fisso nelle palle degli occhi.
“No”.
“Ma dove vivi? E i Kraftwerk li conosci?”
“No”.
“Ma come sei messo? E i The Sound?”
“Sì, li conosco”. Aveva risposto, ormai alle corde, senza fiato. A quel punto era calato il silenzio, perché il sapere andava dimostrato ed era quasi certo che fosse impossibile che due ragazzi della stessa età, a Medicina, nello stesso istante, conoscessero una band dark londinese che non si fumavano nemmeno i loro stessi parenti, al punto che, sul finire degli anni Ottanta, il cantante era caduto in depressione per poi gettarsi sotto il treno della metropolitana, alla stazione di Wimbledon. Uno dei due bluffava, e non era mio cugino, ci avrei scommesso. E infatti, alla prova del nove, la verità era venuta a galla come il respiro del pesce. Mio cugino non si faceva mettere in buca, mai.
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(Corrado Peli)