No, ci troviamo di fronte alla sceneggiatura catastrofica compendio degli umani errori, una sceneggiatura che sembra, di tanto in tanto, a volgere al termine, per poi rinnovarsi sempre diversa e sempre uguale.

Soldati statunitensi durante un’operazione alla ricerca di guerriglieri talebani e munizioni nel 2003 (Foto staff Sgt. Kyle Davis – U.S. Army, Pubblico dominio, da Wikipedia)

Alle già devastanti realtà che affliggono il popolo Afghano, ora dobbiamo sommare la diatriba tra diverse posizioni religiose, disposte a tutto pur di veder trionfare la loro verità e per ottenere ciò, altro non vedono che il sistema delle armi, degli attentati suicidi, dell’odio di genere. Noi ci siamo passati alcuni secoli fa addobbando i nostri intrepidi con una vistosa croce rossa, poi è toccato agli avversari, questa volta con il simbolo della luna e se avessero vinto l’ultima battaglia alle porte di Vienna avremmo dovuto assistere alla compilazione di libri di storia assai diversi, persino nel segno di scrittura.

Ora, chi cerca di fuggire, ha una ragione di più. Ora non devono solo temere il barbuto e accigliato miliziano con il mitra in mano, ora sono costretti a guardare con sospetto un po’ tutti: cosa nasconderà sotto quel pastrano che rigonfia sotto al petto? Una posizione fortunata economicamente che gli consente un buon nutrimento o…

Quelli che hanno rinunciato al tentativo di fuga possono assumere atteggiamenti diversi, come lo stare ben nascosti chiusi in casa in attesa di eventi, gironzolare per le strade delle città impazzite in cerca di un po’ di benzina per l’auto ferma da giorni, o in cerca di una medicina per un figlio che sta male, o tentando di scoprire che fine abbia fatto la figlia, la moglie, il fratello… Frugano disperatamente in cerca di qualcosa che neppure loro sanno, un po’ di cibo abbandonato da un fuggitivo frettoloso, un indumento abbandonato ma ancora utilizzabile, un bagliore di fortuna se ancora ne esiste un po’.

Quelli che per giorni sono stati in attesa di un provvidenziale imbarco su un aereo di salvataggio, ora non sperano più. Ora disperano. Gli ultimi aerei servono per i nostri ragazzi che devono tornare alle loro case. Quelli che sulla terra Afghana hanno perso la vita li chiamiamo eroi. Ri-ascoltiamo una delle prime ballate di Fabrizio, quella dell’eroe. Io ho avuto la fortuna di poterla ascoltare in uno scantinato di un’osteria dalle parti di Porto Principe, in una laterale di via Del Campo, dalla voce di Fabrizio allora molto giovane e non riesco ancora oggi a dimenticare gli occhi di tante ragazze presenti che luccicavano di commozione.

Lasciamo sulla terra Afghana la medesima fame, la stessa disperazione, la mancanza di un orizzonte di speranza, l’idea che un domani qualcosa possa mutare. Lasciamo loro le stesse distese di pietraie, le strade che finiscono in malmesse carrarecce, case abbandonate e sventrate dai colpi di cannone, muri con vistose tracce di colpi di armi a ripetizione, le terre coltivate a papaveri per alimentare il commercio criminale nei nostri porti, nelle nostre città, nelle nostre case. Cresce, occorre dirlo, la montagna di armamenti che le frettolose fughe dei militari hanno abbandonato qua e là, strumenti di morte che non è risultato conveniente rimpatriare, lasciati sul posto dopo averli resi inservibili con una sincera dose di esplosivo: una robusta patina di ruggine copre quelli abbandonati dai sovietici una ventina di anni fa ai quali si aggiunge l’armamentario statunitense e nostrano, oltre a qualcosa di inglese, tedesco, olandese, francese e chi più ne ha, più ne metta. Una sola cosa accomuna tutti questi residuati di morte: la loro inutilità, la loro protervia, l’arroganza della stupidità. I passanti Afghani che vi passano accanto osservano queste informi masse che non devono più temere e quasi restano stupiti dalla loro impotenza. Ora temono ben altro.

Il nemico, quello vero, è dentro di loro e spetterà unicamente a loro individuarlo, svelarlo, circoscriverlo, amputarlo, renderlo inoffensivo. Qualunque altro intervento esterno proporrà il ripetersi di una storia già vista e, al momento, non ancora finita. Abbiamo esportato nella loro terra tutti i nostri errori, la nostra supponenza, come se avessimo qualcosa da insegnare ad altri. Lasciamo sbagliare da soli: ne sono capaci esattamente come noi.

(Mauro Magnani)