“Le vedi le stelle? Guarda che soltanto da quassù le puoi ammirare così bene, perché qui non c’è l’inquinamento luminoso. Ormai giù da noi è impossibile, troppe luci, troppe”.
Dice queste parole con ostentata convinzione, mentre se ne sta beata, il naso all’insù e gli occhi a sfamarsi in quella moltitudine di puntini bianchi e immobili. Bianchi. E immobili. E non c’è nemmeno la luna, che quella, almeno, quando si fa vedere la si nota bene. È gialla malaticcia, con la superficie butterata come il viso di Bill Murray.
“Non c’è la luna”, rimarco la mancanza.
“Se c’era la luna c’erano la metà delle stelle”. Ovvio, dovrei saperlo.
Per lei è come se il tempo non passasse. Invece a me sembra di essere tornato bambino, quando durante le interminabili prediche di Don Natale decollavo in viaggi mentali che spaziavano dal giocare una finale di coppa dei campioni al costruirmi un camper quattro per quattro corrazzato che mi avrebbe permesso di sopravvivere ad un’apocalisse zombie.
Poi c’è un freddo barbino quassù, e siamo a metà agosto. Che solo una settimana fa me ne stavo in spiaggia a Marina di Ravenna a giocare a ruba bandiera. Sì, proprio a ruba bandiera, sai com’è, gli effetti collaterali di un happy hour. Sole, caldo, amici, cocktail, musica. E adesso? Buio, silenzio, nessuno attorno. E freddo.
E le stelle. E lei che non smette di guardarle.
Che poi, a dirla tutta, io le stelle le ho viste eccome, oggi. Ho visto le stelle per vedere le stelle. Cioè, ho visto le stelle nel fare quei dodici chilometri in salita. Ho visto le stelle, e anche una manciata di comete, tra i cancheri che ho tirato in quei mille metri di dislivello. Ho visto le stelle quando sono scivolato e il mio garetto si è scorticato su quel masso appuntito. Me le sono mangiate le stelle, quelle due volte che abbiamo sbagliato strada. E le stelle erano appese a quel cavo di acciaio al quale mi sono aggrappato, sorretto da un rosario di preghiere, per non cadere in fondo a un burrone.
All’ingresso del rifugio mi hanno chiesto il Green pass. Il Green pass? Ma quassù manco il virus c’arriva.
Ero in spiaggia a Marina di Ravenna, una settimana fa.
Vabbè. Per non saperne altro chiudo gli occhi e scendo in campo per la finale di Coppa dei campioni. Real Madrid – Manchester United, che almeno nei sogni si gioca duro.
Sono lì, attorno alla metà del primo tempo, con una parte del mio cervello che sente un leggero formicolio alle dita dei piedi. È forse un principio di congelamento? Chissà.
Mi sto assopendo, ho quasi dimenticato per quale motivo io sia lì, sdraiato su un masso, di notte, con la temperatura prossima allo zero.
“Hai visto?” grida lei, all’improvviso. “Una stella cadente, ha fatto una scia lunghissima”. Mi strattona. Mi sveglia.
Io riemergo dalle gradinate del Santiago Bernabeu. “Sì, bellissima”. Mento.
“Allora esprimi un desiderio, dai!”
E adesso? Vabbè, io lo esprimo, sarà mica un peccato mortale, sarà una cartuccia sparata a salve.
Voglio un letto caldo e una funivia che mi riporti subito a valle. E perché no, in spiaggia. Voglio una manata di sabbia in mezzo al costume a grattarmi lo scroto. Voglio fermarmi all’incrocio di fronte al Mosquito a respirare gas di scarico. E poi non facciamo gli spilorci, voglio anche un bicchiere di Mainetti bello fresco e un cocktail di gamberi con la salsa rosa, che fa anni Ottanta, che eravamo tutti felici a quel tempo.
“Allora, hai fatto, l’hai espresso il tuo desiderio?”
“Sì, sì”, taglio corto.
“Mi raccomando, non me lo puoi dire”. Mi guarda, curiosa, vorrebbe un indizio.
Io mi giro dall’altra parte. “Non posso, lo sai che altrimenti i sogni non si avverano”.
(Corrado Peli)
Foto di Janik Butz da Pexels
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