Mancano pochi giorni al voto nelle principali aree metropolitane d’Italia, tra cui Bologna. Il centrosinistra a Bologna si presenta, nel contesto nazionale, come un “laboratorio” politico poiché le principali forze che lo compongono si sono unite, insieme al Movimento 5 stelle, a sostegno del candidato sindaco Matteo Lepore, che si propone nei prossimi 5 anni di rendere Bologna la città meno diseguale e più progressista d’Italia. Un laboratorio locale che evidentemente parla al livello nazionale. Le linee strategiche che si intendono percorrere per raggiungere l’ambizioso obiettivo vengono illustrate nelle 66 pagine del Programma, costruito attraverso un processo aperto e partecipato di ascolto delle forze politiche e sociali, delle associazioni, e di tutte le cittadine e cittadini che hanno voluto dare un contributo.
Tra i molteplici temi affrontati nel Programma vi sono naturalmente quelli dello sviluppo e del lavoro, una questione centrale per il futuro e il benessere della città e dell’area metropolitana tutta. Dalle statistiche più note sull’area potrebbero sembrare temi sui quali non è urgente porre immediatamente attenzione. In epoca pre-pandemica (2019) l’area metropolitana di Bologna ha raggiunto un tasso di occupazione vicino al 73%, dopo il pieno recupero e superamento degli effetti della crisi del 2008 e un tasso di disoccupazione del 4,4%, rispettivamente tra i più alti e più bassi del paese. Così si potrebbe proseguire anche in riferimento ai livelli di partecipazione al mercato del lavoro, in particolare delle donne, nonché in relazione ai principali indicatori economici.
Tuttavia questi dati, medi e generali, non ci dicono tutto e anzi nascondono questioni delicate e dirimenti. Dal punto di vista economico ed occupazionale Bologna, come altre aree d’Europa e del paese, è un territorio polarizzato. Convivono fianco a fianco, a volte anche sotto lo stesso “tetto”, realtà d’impresa e del mondo del lavoro che dal punto di vista della capacità innovativa e di crescita, della qualità complessiva del lavoro non è eccessivo posizionare agli antipodi. Da un lato realtà dinamiche, impegnate in costante attività di investimento soprattutto in produzione di conoscenza e tecnologia, internazionalizzate, e che attraverso la contrattazione di secondo livello incrementano i salari e la qualità del lavoro e della vita dei propri lavoratori. Sono quelle che contribuiscono a spingere in alto la produttività industriale del paese, in alcuni casi anche oltre ai livelli tedeschi, coi quali periodicamente ci confrontiamo. Tra queste ritroviamo le più note realtà aziendali del territorio, prevalentemente manifatturiere di medio-grandi dimensioni.
Dall’altro lato ci sono realtà che competono sui costi e in particolare, se si tratta di attività labour intensive, su quello per loro principale ovvero il costo del lavoro. In questo caso si tratta di realtà in prevalenza di piccole-medie dimensioni nell’ampio e variegato mondo dei servizi alla persona e alle imprese, nel turismo, nella logistica. Anche se a causa della polarizzazione possono apparire come mondi a sé stanti spesso non lo sono affatto, poiché si tratta di imprese di settori diversi ma che appartengono alle stesse filiere produttive. Concorrono cioè, in una logica di divisione del lavoro, a produrre e fornire il medesimo bene o servizio finale. Ed è proprio qui, all’interno delle filiere, tra produttori e sub-fornitori di beni e servizi, ancor più che sul mercato tra concorrenti, che si cela la più aspra competizione per accaparrarsi la maggior quota di valore finale, dove spesso sono quelli collocati a valle, dotati di minore forza contrattuale, a subirne le maggiori conseguenze in termini di compressione del valore della produzione, dei diritti e del costo del lavoro.
La conseguenza complessiva di queste dinamiche è che a Bologna, quando l’economia cresce non genera occupazione con la stessa intensità, confermando il fenomeno della “Crescita senza occupazione” sperimentato anche in altre aree del mondo, e, in seconda battuta, l’occupazione creata viene distribuita su un numero proporzionalmente più elevato di persone, attraverso l’utilizzo di contratti discontinui e a part-time involontario. Tutto questo concorre a “gonfiare” la bolla numerica dell’occupazione, alimentando dati ad una prima lettura positivi ma che nascondono il fenomeno, corposo e in crescita, del lavoro povero. I lavoratori e le lavoratrici povere sono persone che hanno un’occupazione ma che, nonostante ciò, non riescono ad arrivare a fine mese. Un lavoro povero prima di tutto dal punto di vista economico ma anche da quello della partecipazione e riconoscimento e valorizzazione personale, nel complesso quindi poco, o per nulla, soddisfacente e dignitoso. Queste riflessioni si intrecciano con l’attualissimo dibattito sul Reddito di Cittadinanza, tra i cui percettori, irrispettosamente e superficialmente descritti attraverso la narrazione del divano, ben 1/3 ha in realtà un lavoro, con un salario così basso da dover richiedere un’integrazione.
È con questi occhiali che occorre osservare Bologna, nella consapevolezza che nel descriverla volgendo lo sguardo a una sola delle due parti si rischia di ricavarne una visione parziale, incompleta e dunque mettere in campo azioni insufficienti se non addirittura controproducenti. È forse proprio al lavoro povero e ai meccanismi che lo producono, più che alla partecipazione al mercato del lavoro o altri indicatori economici, che è necessario guardare con grande attenzione sul territorio emiliano.
A queste letture, già di per sé complesse, che fotografano gli anni recenti pre-pandemici è necessario affiancare la comprensione degli effetti della digitalizzazione sul sistema economico e sul lavoro. Da questo punto di vista la sfida è ancora più difficile poiché la significativa discontinuità del processo di digitalizzazione apre a questioni radicalmente nuove dal punto di vista del funzionamento dei mercati, degli attori che li dominano o condizionano e delle caratteristiche e contenuto stesso della prestazione lavorativa. Non si tratta solo e semplicemente di posti di lavoro persi e creati e nemmeno di una crisi al termine della quale si può auspicare di tornare “in equilibrio”, ma di un processo di transizione verso un nuovo sistema economico. Si tratta dunque di uno scenario inedito sul quale si rende necessaria una forte capacità di analisi per comprendere i processi che si determinano e ancor più di una forte iniziativa politica perché le dinamiche che spontaneamente si sviluppano nel libero mercato valorizzino in modo inclusivo le potenzialità di un territorio e non vadano piuttosto ad esacerbare le criticità esistenti.
È bene chiudere questa riflessione tornando al punto di partenza. A Bologna, interpretata proprio come modello di governo per il centrosinistra unito, occorre potenziare tutto il sistema che già esiste, che comprende il modello concertativo, il sistema di welfare, le azioni a sostegno della crescita, per rafforzare la capacità di sviluppo economico ed occupazionale e contestualmente la tutela di chi, da questo processo viene espulso, marginalizzato o non riesce nemmeno a prenderne parte. Contestualmente è necessario tentare un passo in più ossia scardinare alla fonte quei meccanismi che sono vere e proprie macchine produttrici di lavoro povero. Larga parte di queste azioni dipendono sicuramente dall’orientamento politico nazionale ma molto si può fare a livello locale, anche in chiave sperimentale. Ad esempio, una larga parte del lavoro povero si trova nelle filiere degli appalti, anche del settore pubblico come nell’ambito dei servizi sociali o quello delle multiutility. La pressione verso la riduzione dei costi delle attività in appalto da parte delle realtà pubbliche non può che riverberarsi su bassi salari e una scarsa qualità del lavoro. Da questo si può dunque partire, rafforzando ed estendendo ad altri soggetti pubblici e privati del territorio il protocollo appalti siglato a livello metropolitano, inserendo negli investimenti e acquisti pubblici condizionalità finalizzate alla creazione di buona occupazione, promuovendo al contempo la contrattazione.
Il modello concertativo che caratterizza il territorio bolognese rappresenta infatti una delle leve strategiche per affrontare i complessi fenomeni che si prospettano. Considerato il fondamentale ruolo redistributivo e migliorativo delle condizioni di vita e lavoro che ha la contrattazione di secondo livello, essa deve essere promossa e sostenuta dalle Istituzioni locali in particolare nei contesti di piccola impresa e catene del valore frammentate che subiscono a valle gli effetti della competizione. Particolare attenzione deve essere posta ai soggetti più fragili sul lavoro, tra cui le donne, uscendo dalla logica dell’incentivo economico all’assunzione che da solo si traduce troppo facilmente in un mero risparmio sul costo del lavoro e non necessariamente si traduce in buona occupazione.
Su questi punti si ritiene fondamentale agire affinché davvero Bologna possa progredire nella direzione di una crescita che sia davvero inclusiva e vada a beneficio del più ampio numero di persone possibile.
(Daniela Freddi, economista e ricercatrice Ires-Cgil)