Ogni tanto mi prende la voglia di fare qualcosa di diverso e stavolta l’idea è stata di godermi questo viaggetto senza dover guidare e indovinare la direzione da prendere, seguendo una cartina geografica o la segnaletica stradale. Lo so è ora di comprare un navigatore. Prima o poi lo farò, anche perché non sono un’amante dei viaggi in treno, li ritengo abbastanza noiosi; non si vede molto attraverso i finestrini che stanno poi sempre dalla parte sbagliata.
I viaggi un po’ lunghi preferisco affrontarli in macchina, possibilmente non in autostrada, così posso fermarmi quando voglio. Il pullman ad esempio sarebbe il mezzo ideale, per come concepisco un viaggio, ma non sempre esiste e non sempre è conveniente.
Grande, il pullman ha tutti i comfort, con i finestrini ampi che permettono una visuale splendida, non si perde nulla, dalle città alle campagne e inoltre si osserva il mondo da una certa altezza il che rende tutto molto più piacevole. Certo anche qui ci sono inconvenienti. Primo fra tutti il non potersi alzare in piedi quasi mai.
Comunque sia, per andare a Padova, avevo scelto di fare il viaggio in treno, condizionata anche dal fatto che l’ambulatorio specialistico dove dovevo recarmi, si trovava a due passi dalla stazione ferroviaria.
A Bologna dovevo cambiare treno e prendere la coincidenza per Padova. Alle otto di mattina già con un’ora abbondante di viaggio alle spalle non ero molto ben disposta ad attendere ancora. Inoltre la preoccupazione di dover stare in piedi una volta salita sul treno, cominciava a prendere corpo. Molta gente lungo i binari in attesa e chissà quanta altra già sul treno che, come annunciato dall’altoparlante, con la solita voce metallica, viaggiava con venti minuti di ritardo.
Il caldo di quell’estate era veramente opprimente, lungo il binario rendeva l’aria irrespirabile ed era mattina! Figuriamoci! Mi sentivo tutta sudata, avvilita, in preda a un profondo sconforto.
Sapevo da tempo che sarei stata sola in questo viaggio e questo non mi aiutava a dimenticare il problema che stava dominando la mia esistenza.
Già l’esame. Gira e rigira era sempre al centro dei miei pensieri. Stavo rimuginando in questo senso, quando finalmente il treno è arrivato.
Credevo di essere fortunata in quanto mi trovavo proprio sull’orlo della banchina:
“Salgo – pensavo – e forse mi siedo”.
Sbagliavo di grosso, perché appena il treno si è fermato, mi sono trovata in coda a decine di persone. Come sia successo non lo so. Per trovare uno straccio di posto a sedere, sul treno, mi è sembrato di percorrere tante carrozze, quante sono i chilometri per arrivare a Padova.
Finalmente un posto, ed è mio! Ora anche se questo treno avrebbe fatto tutte le fermate prima di arrivare a destinazione, potevo starmene tranquilla e comoda, e data una rapida sbirciata in giro, ho socchiuso gli occhi. Così, soltanto per riposare un pochino, perché in quanto a dormire, non c’era proprio alcun modo. Il vociare dei passeggeri era incessante, mi sentivo come in una specie di Torre di Babele, con tutte quelle voci che si sovrapponevano, per cui riaperti gli occhi ho cominciato a guardarmi attorno.
“In questo modo il tempo passerà più in fretta – mi sono detta – e smetto di pensare all’esame che mi attende ”
Non mi ero ancora resa conto della situazione circostante che una romanza lirica erompe nelle mie orecchie.
Non era Pavarotti, ma il mio vicino di posto, che con le cuffie alle orecchie si era lasciato andare alla musica preferita e cantava non dico a squarciagola, ma nemmeno sottovoce. Con gli occhi chiusi, una mano sul cuore e i freni inibitori chissà dove, quest’uomo sembrava in trance e cantava. Bene oltretutto.
“Come si fa – mi dico – a comportarsi in questo modo su un treno con tante persone che, zittite si giravano e lo guardavano ammiccando. Certo, un uomo di circa cinquant’anni, con tanto di occhiali e una elegante valigia di cuoio, che canta a occhi chiusi Che gelida manina , anche se la manina non è la mia, mi fa sorridere e non ne avrei tanta voglia.”
Tra il divertito e l’allibito, ho scrutato gli altri vicini di posto, una ragazza di colore e un paio di signore o signorine forse giapponesi con una bambina.
Eppure sono in Italia o no? Sì ma l’Italia è in Europa e l’Europa è nel Mondo e il Mondo …..Ah! Beh! Il mondo è vario, perciò è così bello!
Comunque non avendo alcun cenno di collaborazione da parte dei compagni di viaggio, mi sono convinta di dover fare qualcosa per questo signore che continuava a cantare.
Biascicare un timido “Signore scusi”, muovermi in modo da urtarlo leggermente non sortiva alcun effetto quindi, preso il coraggio a quattro mani, con ostentata indifferenza, ho lasciato cadere la mia borsa sul suo piede sinistro. Effetto immediato. Il mio vicino tace di botto, si scuote, apre gli occhi, si guarda intorno, gira la testa verso il finestrino e senza proferire parola richiude gli occhi.
Però non canta più, con buona pace di tutti i viaggiatori che tranquillamente si sono rimessi a chiacchierare.
Ho avvertito un senso di colpa nei confronti di questo viaggiatore, perché mi sono resa conto di avergli rubato uno dei pochi momenti di serenità che forse la vita gli riservava e che la musica gli regalava.
Non potevo certo più riposare ora e spinta dalla curiosità e dall’indolenza ho ricominciato a posare lo sguardo qua e là. Forse non erano giapponesi le ragazze alla mia sinistra, a giudicare dalle fattezze del volto dovevano avere le loro radici in Mongolia.
Strano non avevo mai incontrate prima persone di origine mongola, eppure doveva essere proprio così e a stimolare la mia fantasia è stata soprattutto la bambina.
Faceva tenerezza, mangiava un panino imbottito dietro l’altro, ne ho contati quattro e raccoglieva anche le briciole che le si posavano in grembo. Con gli occhi stretti, nerissimi e brillanti, gli zigomi larghi e pronunciati, le guance paffute doveva inclinare molto la testa, per cercarle. Piegando tutto il collo in avanti appiattiva il mento contro il petto per vederle meglio. Coglieva le briciole con meticolosità per non disperderne nemmeno una.
I capelli corti e lisci incorniciavano un visino molto dolce, colorato, così diverso dal nostro.
La sua voracità mi faceva pensare ad una fame atavica, ad una vita di privazioni, di stenti, e mi riportava alla mente flash di sconfinate, gelide terre incolte, attraversate ancora oggi sul dorso di cavalli stracarichi di pelli e masserizie, depositate in un punto favorevole e lì trasformate in tende. Di domatori di cavalli, di donne intente a cucire pelli di animali per ricavarne abiti. Di gente fiera e orgogliosa, comunque ospitale e gentile con gli stranieri. Persone abituate a non sprecare nulla, perché il poco è tutta la loro ricchezza.
Immagini di bambini che scherzano e giocano fra loro con giocattoli rudimentali costruiti con quel che trovano, con ciò che hanno a disposizione, con la spensieratezza e l’ingenuità che ancora appartiene loro…
“Forse la piccola è nata in Europa e non conosce nemmeno le sue radici, la sua storia. Ma quel che certamente non sa è che la mia voglia di libertà e di conoscenza del mondo, mi porta a desiderare di essere laggiù al posto suo.”
Le auguro silenziosamente buona fortuna, e in cuor mio spero che una volta adulta, possa tornare in quella sua immensa terra portando con sé solo il meglio del nostro eccessivo occidente, per essere di aiuto alla sua gente.
La commozione che provo in questo momento mi distrae per qualche tempo dal mio problema personale ma non appena tendo a dimenticarlo si riaffaccia a rimettere in gioco la mia preoccupante realtà.
Una voce gutturale si alza sul brusio della carrozza: “Takkitukitraki”. Grosso modo questo era il suono che percepivo. “Ma che viaggio è mai questo?”
Avevo già notato che la ragazza di presumibile origine africana stava parlando al cellulare, come tutti ormai, ma con un tono molto tranquillo e pacato in una lingua a me sconosciuta.
Ora però il tono era diventato decisamente alto. Sicuramente stava litigando.
Era un “ tipo”. Alta, slanciata con gambe lunghissime, il viso dai tratti irregolari ma comunque bello, era accarezzato spesso dalle mani in un gesto piuttosto nervoso. Una fascia bianca tratteneva i corti capelli ricci e dava risalto alla sua pelle di velluto.
Dita lunghe e affusolate portavano diversi anelli. Il fisico era decisamente da modella, i jeans attillati e la camicetta ricamata sottolineavano le curve di un corpo sensuale di giovane donna adulta.
Non è mia abitudine ascoltare le conversazioni degli altri, ma la velocità con cui snocciolava parole dal suono così strano, mi metteva in curiosità e anche una lieve sensazione di inquietudine.
Chi era mai questa bella donna, dove andava, con chi parlava? E perché questo tono, prima normale, ora alto. ora roco che inframezzava la conversazione con quel suono da formula magica che risultava quasi sinistro:”Takkitukitraki” ?
“Sei bella, ti vedo con la fantasia correre nella savana con arco e frecce, splendida dea della caccia, trasferita qui con un abile sortilegio. Ti prego non piangere adesso, ritroverai ciò che hai lasciato”.
A Padova per poco non dimenticavo di scendere a causa di quanto stava avvenendo davanti ai miei occhi: mentre la ragazza era ancora attaccata al telefonino e si asciugava le guance con le mani, da un’altra carrozza è venuto avanti un giovane uomo alto, bruno come lei, le si è fermato davanti, l’ha presa per le braccia e l’ha stretta forte al petto. Il vento caldo dell’Africa alitava su di loro.
Sono scesa dal treno e voltandomi indietro ho guardato i miei compagni di viaggio proseguire per Venezia, ognuno con il proprio bagaglio di emozioni e speranze, proprio come me.
Anche se, potendo, il mio bagaglio colmo d’inquietudine, l’avrei lasciato volentieri sul treno.
(Lina Cremonini)
Lasciarsi dietro ciò che ci turba è cosa buona. Purtroppo dopo poco i turbamenti ritornano.
Ognunno col suo viaggio, ognuno diverso. Ognuno in fondo perso dentro o fatti suoi…direbbe Vasco…
Bel racconto intriso di nostalgia , curiosità e inquietudine..
Bel racconto intriso di curiosità nostalgia e inquietudine
Descrizione accurata di un luogo che ci si aspetta noioso, ma che la fantasia e l’attenta osservazione lo trasforma in uno sguardo sul mondo.