Bologna. La sera di venerdì 8 ottobre, tra le mura della Fondazione Duemila, si è svolto uno degli incontri in programma per le serate della notte rossa. Un gruppo di tesserati al Partito, amici e curiosi vari, si sono riuniti per la serata introduttiva del nuovo progetto di Giulia Mitrugno, sto parlando del podcast “Insieme, i luoghi della cultura popolare”. Popolare sarà una parola che verrà ripetuta continuamente durante lo svolgimento della serata, a tal punto che, per un momento breve e confuso, il mio cervello non è più riuscito a ricondurne il significato.

Giulia è giovane e appassionata, presenta un progetto nuovo, diretto e indice della trasformazione dei mezzi di comunicazione che è in corso negli ultimi decenni. Un progetto che è pensato per raccontare quegli episodi che hanno rivoluzionato l’approccio del popolo, del proletariato, a quella cultura che fino al dopoguerra era limitata a gli spazi delle classi più agiate. “Insieme” si prefigge di essere un racconto dell’esperienza del passato per appassionare, in futuro, una libera e consapevole trasmissione della cultura. Si propone come un progetto importante e di sicuro l’ideatrice è sinceramente appassionata. Il primo episodio è uscito qualche giorno fa su Spotify e tratta della Casetta Rossa di Bologna, dalle zone di Saragozza. La puntata trascorre per una mezz’ora in cui vivo la storia attraverso le parole di Giulia e del suo interlocutore, Luciano Leonesi, colui che nel primo dopoguerra ha portato avanti il progetto del Teatro Popolare. Ma non vorrei rovinare l’esperienza e lascio la narrazione della storia a qualcuno che la sa raccontare sicuramente meglio di me, consigliandovi calorosamente di recuperare il podcast.  Ero quindi curioso, dopo l’ascolto della prima puntata, di conoscere meglio la persona dietro al microfono e i luoghi dove oggi ancora si respira la cultura popolare così, con un collega, mi sono recato alla presentazione del progetto.

Di sicuro, l’odore di Partito si respira ovunque. Superati i cancelli arrugginiti che portano al cortile interno della Fondazione Duemila, il mio collega ed io ci ritroviamo straniti davanti al capannello di persone che si era formato davanti all’ingresso del salone conferenze. Oltre a sentirci oltremodo fuori luogo data la differenza di abbigliamento tra noi e gli altri presenti alla serata, ci accorgiamo con orrore che il tavolo del buffet è stato svuotato da ogni leccornia che in quel momento, a stomaco vuoto, possiamo solo sognarci. Dato l’orario e il fatto che lo avessi attirato ad accompagnarmi con la promessa di un buffet, il mio collega punta subito ad un piatto sul quale da lontano sembra ancora esserci qualcosa. Purtroppo, scopre che è solo un tovagliolo e lo scosta, lasciandolo cadere sul piatto come un sudario. Decidiamo di entrare e nel mentre, un po’ per non rimanere a mani vuote, riesco ad accaparrarmi l’ultima bottiglietta d’acqua. Il salone non è molto grande, ma accogliente, i muri bianchi spezzati da quadri semi-impressionisti di figure umane e da una libreria che accompagna la parete di sinistra. Sbircio i libri: c’è Gramsci, storie partigiane, roba su Berlinguer, insomma, titoli che avrei potuto trovare all’interno di qualsiasi centro sociale. L’odore di Partito mi intasa le narici e decido di sedermi. Dietro la scrivania dove si trovano gli invitati, Berlinguer osserva i presenti con il braccio alzato in saluto, ricambio e dopo poco la conferenza inizia.

Giulia introduce il suo progetto con poche parole, soprattutto di chiarimento su cosa sia un podcast, lasciandosi introdurre per lo più dalle parole di Leonesi, il primo intervistato della sua serie e dalla musica dei fratelli Marcheselli che si scatenano in una Polka con chitarra e organetto. Il chitarrista ricorda incredibilmente Franco Battiato, ma se avesse scelto la strada delle balere. I due stabiliscono subito il mood della serata e trasportano tutta la sala indietro nel tempo con i loro urli improvvisi e quelle scale che mi fanno inspiegabilmente muovere i piedi, tutto d’un tratto liberi dal controllo della corteccia frontale del mio cervello. Dura per poco e nessuno balla, peccato, penso.

Finita la musica e ripreso il controllo dei piedi, iniziano gli interventi degli invitati. Tra i nomi possiamo leggere Antonio Fanelli, Federici Morgagni, Ugo Sposetti e Maria Giuseppina Muzzarelli, quest’ultima, donna molto sorridente, si occupa di organizzare la notte rossa e parla per prima. Gli interventi della serata si occupano bene o male di chiarire il piano storico e culturale in cui sono nate le sale popolari, i luoghi insomma le cui storie saranno raccontate in modo ottimo da Giulia nel suo podcast. Mi sembra di percepire una velata nostalgia di un passato glorioso, in cui il popolo era coinvolto e partecipe della vita politica dello stato.

Un passato in cui il proletariato, non potendo appropriarsi dei mezzi di produzione decise, per sentire meno il divario con le classi più abbienti, di appropriarsi dei mezzi di trasmissione della cultura. La preoccupazione condivisa tra chi interviene è quella della poca partecipazione alla politica del giorno d’oggi e su come poter coinvolgere i giovani in attività di questo tipo. In quanto “giovane” mi sento tirato in causa e mi metto subito sulla difensiva. Il punto è che i giovani, spesso, vengono visti come soggetti passivi da “attirare” alla partecipazione culturale e politica. Non vedo spesso qualcuno che difende la soggettività e la possibilità di una vasta fetta della popolazione di partecipare attivamente alla diffusione di nuove idee.

Tra tutti gli interventi, infatti, quello che mi pare il più interessante è quello della professoressa Muzzarelli. Le brilla una strana luce negli occhi e la sua voce è frizzante, è una sognatrice, è appassionata e si sente. Riconosce l’utilità di raccontare come le idee si sono trasmesse in un momento storico da una classe di persone con una grande necessità di esprimersi, di come dal passato si possa, effettivamente, imparare qualcosa. Ma non si ferma lì. Questa necessità è tutt’ora presente, è palpabile e si percepisce. I mezzi di comunicazione, però, sono cambiati e le classi sociali sono cambiate, il ruolo di narrare la cultura e i suoi luoghi deve servire come mezzo di ispirazione per la creazione di qualcosa che riesca ad esprimere quella necessità, secondo i mezzi disponibili nel presente e riconosce a Giulia questo ruolo. Dopo che gli interventi finiscono, grandi applausi, parte nuovamente la piccola orchestra e resto seduto, ancora sopraffatto dai miei pensieri, ad ascoltare i battiti dei piedi a ritmo di tre tempi. Nessuno balla, di nuovo.

Mi accorgo che è proprio quello il punto: siamo persone in una stanza che parlano di quanto era bello quando si ballava nelle case popolari, ma nessuno sta ballando. La lezione che è necessario trarre da questa serata, è che si può continuare a parlare di quanto fosse bella e partecipativa la vita politica e culturale del passato, ma il discorso non si dovrebbe fermare a questo. Dovrebbe essere il punto di partenza. Confuso, mi alzo e corro fuori per prendere una boccata d’aria e fumare una sigaretta che ridendo e scherzando sono già passate due ore e la mia dipendenza si sta facendo sentire. Decido di aspettare Giulia e di non dare ascolto alle pance brontolanti che domandavano cibo, dal momento che ho bisogno che qualcuno mi riassicuri che quello a cui ho assistito non sia stato puro onanismo autoreferenziale. Non si fa attendere molto e dopo pochi minuti esce pure lei e accetta volentieri di fare due chiacchiere, mentre pure lei si accende una sigaretta, il che fa assumere alla mia piccola intervista un’aria colloquiale che mi tranquillizza e mi mette a mio agio.

Allora, prima di tutto volevo chiederti perché tu abbia scelto proprio il podcast come format?
“Come raccontavo prima, li ho scoperti durante il lockdown, mi colpiva il fatto che alcuni avessero la capacità di coinvolgerti e spingerti ad approfondire l’argomento. Alla fine sono storie già ricche di loro che devono essere condite dal narratore, più presente che, per esempio, in un documentario. Molte di queste storie già le conoscevo per lavoro e da anni volevo raccontarle in modo efficace.”

Giulia Mitrugno

Molto efficace e anche molto semplice. Mi spiego meglio.. Mi viene da pensare ai nuovi mezzi di comunicazione, come appunto Spotify, YouTube, la cui base è “broadcast yourself”. Alla fine se hai una bella storia da raccontare, puoi prendere un microfono e raccontarla, puoi effettivamente “broadcast yourself”, dà molte possibilità come media. Non è così?
“ In linea di massima sì. Poi dipende sempre quali narrazioni devi inserire all’interno del tuo prodotto, se vuoi raccontare la storia di qualcun altro è un po’ più complessa la faccenda. Devi esserti preparato prima, devi farti raccontare le cose giuste, devi creare un clima con l’intervistato in modo che ti racconti le cose che ti servono. In questo caso metto insieme la semplicità del linguaggio e della strumentazione con l’esperienza colloquiale con gli intervistati. Si tratta di una possibilità incredibile.”

Capisco, e ci sono esperienze che ti hanno colpito in modo particolare, personaggi che ti hanno lasciato un segno?
“Innanzitutto questa di Bologna, la Casetta Rossa, in primis perché Leonesi è un personaggio incredibile e non potevo non essere travolta dal suo racconto, se pensi che era capace di mettere duemila persone di fronte ad un palco e a trasmettere l’idea che il teatro è uno strumento per allargare il cervello, era davvero un personaggio incredibile. L’altra storia è quella della seconda puntata, della casa del popolo di Moiano, la casetta del popolo in provincia di Perugia che attraversa cento anni della storia d’Italia. Una storia che inizia nel venti e che vede passare fascisti, lavoratori, brigatisti.. Sicuramente c’è una storia e sicuramente c’è qualcuno che te la racconterà con passione.”

Quindi parte dalla tua passione?
“Certo, qualsiasi lavoro di questo tipo parte da quella. Se non hai la passione di raccontare cose non è il tuo mestiere.”

Per caso c’è uno di questi luoghi che inizialmente ti ha fatto suonare il campanello, che ti ha fatto dire: voglio raccontare questo genere di storia?
“C’è, ma lo racconterò nella seconda stagione!”

Ahhh, mi piace che ci lasci con questa suspence. Invece vorrei farti una domanda spinosa.. Sappiamo che i mezzi e la società sono cambiati da quella società che permetteva a questi luoghi di proliferare. Come potrebbe essere possibile al giorno d’oggi costruire dei luoghi in cui ricreare le esperienze della cultura popolare?
“Domanda da un milione di dollari… Allora. Non saprei darti una risposta totale, so che recuperare queste storie e trasmetterle è un passo avanti in questa direzione, bisogna trasmettere questa passione e tirarla fuori dalle persone, che c’è in tutti.”

Appunto, come diceva la Professoressa, sono esperienze che nascono da una necessità, che tutti provano, di esprimere la propria esperienza e l’arte tradizionale non può rispondere a questa necessità. Al giorno d’oggi le classi che provano questa necessità non sono più quelle dei lavoratori, forse perché viviamo in una società di consumo in cui hai la percezione del benessere, oppure per i mass media, che ti permettono di esprimerti molto più facilmente, ma che non possono rispondere alla necessità collettiva di cui abbiamo parlato. Penso che ci siano delle nuove classi, come i giovani, che vivono in un mondo del lavoro precario, oppure i migranti, che stanno affrontando tutt’ora una società che non è capace di integrarli in un modo soddisfacente. Ti chiedo quindi, possono queste esperienze integrare queste classi? Quali potrebbero essere i nuovi luoghi della cultura popolare?
“I luoghi non devono per forza essere fisici o prefissati. Possono essere le piazze, possono essere luoghi online, usati in modo corretto. Quello non dovrebbe essere un problema. Di sicuro è difficile che uno spirito di cultura popolare possa partire da altri livelli se non dal basso. Io non credo che questa volontà sia morta, prendi i Fridays for Future, o la Lega Braccianti che fa riferimento ad Aboubakar (si riferisce ad un’altra puntata del podcast). Stanno riuscendo a fare tutto ciò, stanno spingendo in questa direzione, noi, nel senso di istituzione dobbiamo aiutarli, o almeno trasmettergli la passione.”

Trasmettere la passione. Giulia è giovane e appassionata e si cala molto bene nel suo ruolo di narratrice. Di sicuro mi ha ispirato e mentre tornavo a casa in macchina, dopo avere finalmente mangiato un trancio di pizza, parlo con il mio collega di molte idee che ci sono venute stasera, a sentire queste storie, per un progetto futuro che abbiamo in mente. Effettivamente Giulia è riuscita nel suo intento e mi ha tranquillizzato riguardo all’obiettivo della serata. Consiglio a tutti i lettori di ascoltare il podcast “INSIEME.” I luoghi della cultura popolare” che potrete trovare su Spotify, o di visitare il sito insiemeilpodcast.it . A volte bisogna semplicemente guardare indietro, ascoltare ciò che il passato può raccontarti, specie se te lo racconta con una voce come quella di Giulia e dei suoi intervistati, per costruire un futuro che può meglio rispecchiare le nostre necessità, insieme, a ballare la Polka.

(Francesco Lacchini)