L’uomo scese l’ultimo gradino della carrozza ferroviaria, e spinto da una grassa signora alle spalle che iniziò a urlare nelle orecchie «Macchinisti, fuochisti, ferrovieri, facchini, affini, collaterali, uomini di fatica!», si trovò catapultato in mezzo alla pensilina mentre la folla lo superava, lo avvolgeva, lo soffocava, lo spintonava come fosse un branco di pesci catturati nella rete che cercano disperatamente la via della salvezza. Come sempre controllò l’orologio della stazione; 18.23, solo due minuti di ritardo.

Il suono stridulo dei fischietti dei capotreni, le grida dei facchini, degli strilloni dei giornali della sera, dei gelatai, si mescolavano al fumo e al vapore prodotto dalla locomotiva sbuffante come un drago delle fiabe e riempivano la testa stanca dell’uomo giunto alla fine della settimana lavorativa. Non vedeva l’ora di uscire dalla stazione, raggiungere l’appartamento in cui si era dovuto trasferire per lavoro da pochi mesi e finalmente potersi riposare nel silenzio della casa.

Si riprese e sgomitando, proteggendosi con la borsa dei documenti usata come scudo, si fece largo tra la gente in direzione della sala d’aspetto e dell’agognata uscita.

«Sogni! Sogni per tutti i gusti. Prezzi modici. Venghino belle signore e signori. Lei signor militare, vuole un sogno? Solo due lire. Due piccole lire per il vostro sogno. Sogni! Sogni per tutti i gusti» La voce del venditore, alto e magro che agitava le lunghe braccia come zampe di una mantide religiosa, impalato accanto al tabellone delle partenze, sovrastava con la sua potenza tutti gli schiamazzi, le grida, persino i rumori dei convogli. Due Regi Carabinieri lo fissavano da lontano, i volti impietriti dentro le uniformi impeccabili, attenti e ancora indecisi sulle reali intenzioni dell’ennesimo ciarlato, pensò lui; ma si fermò.

Era sicuro che l’imbonitore nei giorni precedenti non ci fosse stato; il pensiero volò via senza lasciare traccia ma lui continuò a osservarlo. Il “venditore di sogni” indossava una vecchia e sdrucita redingote rossa che non nascondeva gli anni trascorsi così come i neri pantaloni troppo larghi per la sua corporatura, trattenuti da larghe bretelle che attiravano l’attenzione per gli accesi colori stonando vistosamente con il resto dell’abbigliamento; sulla bianca camicia, proprio sotto il colletto, due elaborate lettere in simil-oro sbiadito, M.C., che probabilmente erano le iniziali del suo nome; completava il vestiario una scolorita bombetta nera. Sospesa da due corde appoggiata al petto, un cassettina bianca di legno dentro cui stavano, in belle e ordinate file, i foglietti chiusi dei sogni da vendere. “Imbroglione” pensò l’uomo fissandolo; scosse la testa ma rimase ancora lì, come trattenuto da una malìa. «Signorine, signorine! Due sogni. Per voi. Solo quattro lire» Le due ragazze a cui si era rivolto con un buffo e stravagante inchino risero e arrossirono coprendosi il viso con l’ombrellino per scomparire lasciandogli solo una timida occhiata. La coppia di Regi Carabinieri era svanita.

Il venditore si riprese senza mostrare alcuna delusione. Il viso appuntito, con una leggera barba grigia tradiva la sua età; ma lo sguardo pungente e attento, racchiuso dietro i pince-nez, rivelava l’attenzione per ciò che gli accadeva intorno e l’energia che trasudava dai suoi modi.

E i loro occhi finirono per incontrarsi. Il venditore allungò un dito puntato contro di lui.
«Signore, signore. Lei ha bisogno di un sogno» disse, fissandolo.

L’uomo s’irrigidì, indispettito e imbarazzato per essere stato additato così ad alta voce in mezzo alla folla. Non era suo costume farsi notare né mettersi al centro dell’attenzione. Forse per questo non era ancora riuscito a trovarsi una fidanzata; i suoi goffi tentativi al riguardo finivano sempre per scoraggiare le ragazze da marito piuttosto che attirare la loro attenzione e giunto sulla soglia dei trent’anni aveva iniziato ad arrendersi all’idea che non avrebbe mai incontrato l’amore.

«Signore, signore. Lei ha bisogno di un sogno.» Ripeté il venditore, sempre a volume esagerato, attirando ancora di più l’attenzione nei suoi confronti.

L’uomo si accorse dei risolini dei vicini, dei passanti frettolosi, dei viaggiatori in ritardo e si decise; si frugò nella tasca alla ricerca di qualche spicciolo da dare al venditore per uscire da quella situazione imbarazzante e poi, dalla stazione. Mentre le dita rovistavano per determinare con il tatto il valore delle monetine, s’avvicinò e si fermò davanti a lui.

«Ecco, tenga» e allungò quattro diversi e minuscoli dischetti metallici verso il venditore; il suo sorriso si tramutò in una smorfia di disapprovazione.

«Mi scusi, signore. Non siamo qui per fare l’elemosina» rispose. L’uomo notò il plurale maiestatis ma non gli diede importanza. «Noi vendiamo sogni» proseguì l’altro.

L’uomo rimase con la mano sospesa nel vuoto, senza sapere se aprirla e versare così le monete sulla cassettina o ritirarla e riporle nella tasca. Il venditore invece contò gli spiccioli sul palmo, li prese e disse.

«Con questa cifra avrebbe diritto solo a un piccolo sogno da realizzare. Vede signore, non tutti i sogni hanno lo stesso prezzo, lo stesso valore. Ci sono sogni grandi, medi, piccoli; il lavoro, l’amore, la fortuna al casinò, divenire un uomo potente, compiere una grande avventura, attraversare l’oceano con un aeroplano, sconfiggere una malattia incurabile, divenire un famoso pittore, poeta, senatore del Regno. Ma oggi siamo generosi, signore, e le offriamo un sogno più grande, sempre che sappia quale è il suo.»

L’uomo non rispose. Chiuse le dita e fece per andarsene, con passo rabbioso.
«Perché non vuole più sognare?» si sentì dire alle spalle. Si fermò, si girò e lo guardò.
«A lei che importa?» rispose.
«Vendo sogni; per chi non li ha, per chi li ha persi, per chi pensa di non meritarseli. Lei, signore, a quale categoria appartiene?»

L’uomo fissava il venditore di sogni che ora aveva indossato una strana espressione, come una maschera; ora era, allo stesso tempo, diverso e identico a prima. Una bambina che teneva per mano un bambino più piccolo, ambedue vestiti quasi di stracci, i volti e i corpi smunti dalla fame atavica e dall’abbandono, sbucò tra la selva di gambe e si pose davanti al venditore, la mano aperta. Il venditore guardò l’uomo, poi prese un foglietto dalla cassettina, lo appoggiò sul piccolo palmo e sopra ci aggiunse tutte le monetine. La bambina strinse le dita, accartocciò il foglietto, e senza dire niente, scomparve assieme al bambino.

E l’uomo, infine, rispose mentendo. «Non lo so.» Si trovò nuovamente fissato dal suo sguardo penetrante che sembrava trafiggerlo e giungere sino al profondo della sua anima e lui arrossì. Il venditore non rispose; non era lì per fare conversazione, per convincere. Allungò le dita sull’ultima fila dei foglietti. Scorse la lunga e fitta fila con le dita, come fosse un rabdomante; ne estrasse uno e lo consegnò all’uomo che lo prese senza opporre resistenza. L’altro si chinò levandosi il cappello. «Sogni! Sogni per tutti i gusti. Prezzi modici. Venghino belle signore, e signori.»

L’uomo si voltò, quasi infastidito; guardò l’orologio della stazione: 18.23. Come era possibile? “Si sarà fermato” pensò e uscì.

Il minuscolo appartamento in affitto in cui viveva era pregno degli odori delle ricette rustiche e casalinghe della signora Adalgisa, proprietaria dello stabile e affittuaria del suo come delle altre stanze ammobiliate in cui risiedevano solo uomini; le donne non erano ammesse, per il decoro della casa. La sala in cui sarebbe presto andato a consumare la cena, unico vero pasto della giornata, si era già riempita dei quotidiani avventori e i loro discorsi giungevano attutiti e lontani dal piano sottostante. Contrariamente alle altre serate, l’uomo ora non aveva voglia di incontrarli, senza darsene una ragione o una spiegazione plausibile. Si era nel frattempo spogliato degli abiti usati quel giorno che aveva riposto con cura e precisa attenzione nelle grucce e poi indossato i comodi vestiti di casa.

Lo vide. Era appoggiato sul tavolino, chiuso. Il foglietto dei sogni. Non si era accorto di averlo messo lì. Lo guardava, senza sapere se prenderlo o meno; una parte di sé era curiosa, l’altra indifferente se non diffidente. “Qual è il mio sogno?” si chiese e prima che la risposta conosciuta giungesse alla mente la mano si allungò sul foglietto; l’aprì e lesse “Elvira”.

E il viso di Elvira, una delle segretarie dell’ufficio in cui lavorava, le apparve. Gli sguardi che avevano iniziato a scambiarsi da qualche mese dopo il suo arrivo da Milano come capo ufficio della sezione assicurativa, gli avevano messo addosso una strana allegria e allo stesso tempo, una confusa nostalgia che saliva in lui appena uscito dall’ufficio, come se sapesse che il giorno dopo non sarebbe più tornato e avesse già detto addio a quel presente prima ancora di averlo vissuto.

Per ragioni sconosciute che a lui sfuggivano, l’uomo si sentiva inadatto, inadeguato ad affrontare le relazioni con gli altri esseri umani, come se sentisse di appartenere a una specie non-umana. E quando si guardava allo specchio, c’era sempre lo stesso viso sconosciuto, un volto che non corrispondeva a ciò che lui sentiva di sé, senza però avere un’altra correlazione di tratti; si sentiva un disegno appena abbozzato, una fotografia sfuocata, un frutto non divenuto maturo.

«Signor Enrico? Non scende? La cena si fredda?» La potente voce della signora Adalgisa interruppe quei pensieri, che, come un maelstrom, lo trascinavano a fondo e uscì, scuotendo la testa.

Il capoufficio Enrico, la borsa tra le dita sudate, in perfetto orario, abbassò la maniglia della porta a vetro della Società Anonima Assicurazioni Milano ed entrò. Il viso della signorina Elvira, seduta dietro la sua macchina da scrivere, lo guardò con un sorriso e lo salutò come tutte le mattine. «Buongiorno, signor Enrico» Lui si avvicinò e si fermò davanti a lei, il cuore in subbuglio. «Buongiorno, signorina Elvira. Dopo l’ufficio, le va di prendere una cioccolata, un cordiale con me?» Lei arrossì delicatamente. «Si. Mi farebbe piacere» «Allora, a più tardi.» Si sollevò leggermente il cappello e si diresse come un automa verso il suo studiolo e quando vide il proprio volto riflesso sul vetro della porta, si riconobbe.