Andrea Pagani

In narrativa, ma anche nel cinema e nel teatro, viene chiamato climax il culmine dell’intensità emotiva d’una storia, l’acme, il momento più acuto di un processo in crescente tensione. Di questa tecnica, che dall’antica tragedia greca arriva fino alla letteratura contemporanea, pochi sono i veri maestri, capaci di tenere la sospensione al punto giusto, di far attendere ma non troppo, di dilatare e gestire il trasporto del lettore fin ad un punto di eccitazione estrema.

Di certo, il romanzo di Don DeLillo, Rumore bianco (Einaudi, Torino, 1999), è una prova emblematica di questa strategia narrativa. Il libro, strutturato in tre parti, registra in tutta la prima parte di circa un centinaio di pagine le dinamiche della famiglia di Jack Gladney, professore di studi hitleriani nel campus universitario d’una tranquilla cittadina statunitense: la vita quotidiana di Jack e della moglie Babette, e dei figli adolescenti Heinrich e Steffie, tra i “non luoghi”, supermercati, paninerie, rosticcerie, centri commerciali, e le loro serate davanti ai programmi televisivi. Compare, a tratti, un collega di Jack, Murray, sempre vestito con abiti di velluto, che tiene un surreale corso all’università sugli incidenti d’auto al cinema e che sbrodola monologhi ampollosi e vuoti.

Ma il lettore avverte che qualcosa sta per accadere.

Si percepisce un’atmosfera di catastrofe imminente, di angosciante precipitare degli eventi, come davanti ad un film, con un sottofondo musicale inquietante, appunto una sorta di rumore bianco, dove i banali gesti dei protagonisti sembrano da un momento all’altro sprofondare nella rovina.

Non è facile creare una tensione simile, perché si rischia di annoiare il lettore, di perderlo, di tirare troppo la corda. Invece De Lillo riesce con magistrale abilità a calibrare al punto giusto la suspense, ossia il racconto del cataclisma che arriva, puntuale, all’inizio della seconda parte.

Una nube tossica, dall’inspiegabile natura e provenienza, cala improvvisamente sulla cittadina, costringendo gli abitanti ad una frettolosa evacuazione e facendo crollare la rassicurante e illusoria facciata di efficienza tecnologica e di felicità consumistica.

Così l’autore, con un linguaggio agile ed esatto, non di rado ironico e vivace, svela le mille contraddizioni della società odierna, ormai esausta, che si sforza penosamente di compensare con una pura cultura materialistica, con la celebrazione degli oggetti, il vuoto di idee e di valori in cui è stata risucchiata.
Ma appena un ingranaggio del meccanismo s’inceppa ogni falsa apparenza va in mille pezzi.

Quando il velo dell’artificio si scopre, ecco che emerge, nella terza ed ultima parte del libro, una realtà disumanizzata e grottesca, a tratti addirittura comica ed esilarante, fatta di stupidità, miseria etica, stanchezza. È questo lo scenario del deserto morale del nostro quotidiano, che De Lillo ci presenta con impietosa evidenza e colori apocalittici, non esente da un tono sarcastico e caustico, ma anche con tinte fosche e pessimistiche: il frutto maturo di una letteratura post-moderna che svela gli aspetti mostruosi del nostro tempo.

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(Andrea Pagani)