Un vecchio telaio verniciato nero, due cerchi con qualche ammaccatura, i pedali uno diverso dall’altro, un bel manubrio cromato, un po’ sbrecciato modello Valencia e una sella scucita, furono i pezzi assemblati da mio padre per costruirmi una bicicletta. Il manubrio Valencia non so perché si chiamasse così, ancora lucido, faceva parte insieme al telaio, di una vecchia bicicletta rottamata dal meccanico vicino a casa nostra. La sella piuttosto malandata, venne ricoperta con una vecchia borsa di pelle molto sciupata di mia madre. In casa nostra non si buttava via nulla!

Fino ad allora avevo usato la bici di mio padre, andavo avanti e indietro nel cortile, pedalando con la gamba sotto il cannone perché non ero abbastanza alta per scavalcarlo. Le acrobazie per cercare di stare in equilibrio, non erano da meno del virtuosismo di un funambolo da circo. Non ricordo come avevo fatto a imparare a pedalare in quel modo grottesco, su una bici da uomo, ma era una pratica abbastanza comune tra i ragazzini di quel tempo.

Mio padre ad un certo punto ebbe compassione e decise che le mie esibizioni non erano ‘un bel vedere’ e si mise d’impegno. Era finita da poco l’ ultima guerra, non avevamo molte risorse, comperare una bicicletta nuova o usata che fosse, era impensabile. Diede quindi sfogo alla sua buona volontà decidendo che se sapeva riparare i fucili da caccia e non era comunque il suo mestiere, sarebbe stato in grado anche di costruire una bicicletta. Io ero al settimo cielo e fui sempre al suo fianco finché non ebbe terminato quello che sarebbe stato per anni il mio unico mezzo di locomozione. E bicicletta fu fatta!

Non era proprio una bici da bambina e riuscii a sedermi sul sellino solo parecchio tempo dopo. Intanto pedalavo, eccome.

Era motivo di stupore, per i miei genitori, vedermi andare su e giù per ore, senza sedermi mai. A tratti risultavo altissima quando rimanevo sui pedali a mezz’aria, diventavo subito dopo nanerottola, quando dovevo pedalare, tanto piccola che le spalle rimanevano più in basso del manubrio.

Aveva un grande cortile la nostra casa, rettangolare nel punto più trafficato, si faceva più stretto da un lato dove la pavimentazione diventava sassosa e sconnessa. Lì avvenivano quasi tutte le mie cadute e mi consideravo fortunata, perché da quel punto se anche mia madre fosse stata alla finestra, non avrebbe potuto vedermi. Mi rialzavo e andavo a lavarmi il ginocchio ferito a una piccola fontana che alimentava l’abbeveraggio di mucche e cavalli, asciugavo poi con la gonna e riprendevo la corsa sul terreno accidentato.

Per una delle mie zie, timorata di Dio, ero una specie di selvaggia, per mia madre ero la simpatia in persona. Le mie due sorelle non erano interessate alla bicicletta. L’una mi considerava una vergogna, lei usciva a piedi con le amiche, l’altra più piccola e un fratello ancora più piccolo di me non si curavano molto delle mie faccende personali. Per mio padre… beh, lui mi considerava alla stregua di un altro maschio di casa e pur cercando di restare serio, sotto sotto, sul suo viso si indovina un certo compiacimento. Dal canto mio, mi sentivo importante quando qualcuno mi chiedeva di fare una commissione e mi diceva: “Dai prendi la bici”. Ero la bambina più felice del mondo.

Era bello volteggiare per il cortile, per le strade del paese con la gonnellina al vento!

Avevo otto anni e la mano non era abbastanza grande da poter frenare, il freno era troppo rigido e non contavano le frequenti gocce d’olio, per cui io usavo strisciare un piede finché sono stata piccola e quando riuscii anche a sedermi sulla sella, frenavo con tutti e due i piedi. Nella punta la tomaia si staccava dalla suola e i sandaletti estivi mancavano sempre di qualche listello. Pazienza andavano bene anche così. Importante era avere la bicicletta.

In quel periodo erano di stanza in una delle stalle di mio nonno, alcuni soldati italiani che avevano adottato una cagnolina piccola, nera come la pece, si chiamava Fiamma. A essere ottimisti si poteva credere che mi fosse molto affezionata, ma a pensarla un po’ più concretamente mi cercava solo quando avevo una merenda in mano e non se ne andava finché non avevo diviso con lei l’ultima briciola.

Foto di Sean Wareing da Pixabay

Chissà perché un giorno le cose andarono in modo diverso. Forse mi ero alzata con la luna storta e non avevo nessuna intenzione di dividere con Fiamma il mio panino con la mortadella.

Misi in tasca la merenda e inforcai la bici per andare a gustarla da sola e in santa pace, arrampicata sul solito albero di tiglio, l’ ultimo della fila che delimitava il cortile e lo divideva dal campo coltivato a grano. Da lassù avevo un panorama molto diverso, vedevo chi o cosa transitava per la via Emilia, nel mio cortile o in quello della fabbrica di ombrelli che si trovava al di là del campo. Insomma stare appollaiata sull’albero mi piaceva molto, quasi come andare in bicicletta.

Quando Fiamma si accorse che stavo sfuggendola, prese a rincorrermi e nonostante le sue corte zampette mi raggiunse, fece un balzo e mi addentò il fondo dei pantaloncini che la mamma mi aveva fatto indossare perché fossi più dignitosa quando andavo con la bici.

Le mie urla e il ringhiare del cane fecero sì che i soldati uscissero tutti dalla stalla e nel vedermi a terra con Fiamma che non mollava la presa, scoppiarono in una fragorosa risata. Forse divenni blu dalla vergogna, oppure verde dalla rabbia, non so, ma di certo fu che per tre giorni non osai avventurarmi nel cortile né a piedi né in bicicletta. Però era dura dover restare in casa tutto il pomeriggio. Mamma era dispiaciuta di questa mia reazione e cercava di spiegarmi che non era il caso me la prendessi tanto e che la cagnolina non poteva ragionare, era soltanto molto golosa e seguiva il profumo di mortadella. Insomma tanto disse che il quarto giorni decisi di scendere in cortile. La vista della mia bicicletta appoggiata al muro mi commosse. Polverosa, malinconica e abbandonata dovetti convincerla (la bici) che non l’avevo dimenticata e per dare significato alle mie parole, presi uno straccio e cominciai a ripulirla.

Ho parlato del mio tiglio preferito, ma non ho ancora raccontato che siccome gli alberi erano quattro, tutti in fila perfetta, io tra loro con la bici facevo la gimkana, senza nemmeno sapere che il gioco poteva chiamarsi così. Era una prova di abilità che mi faceva sentire più grande, zigzagavo come una farfalla immaginando di fare una gara di bravura, chissà con chi. Mi riusciva sempre bene, tranne quella volta. Non so da quanto tempo stessi facendo il gioco, forse cominciava a girarmi la testa, oppure fu lo spavento che mi prese quando mi sentii chiamare in modo perentorio da mio nonno, fatto sta che invece di sterzare per infilare lo spazio tra due alberi, presi con la ruota anteriore una buca dello stretto passaggio e mi catapultai con la faccia nelle stoppie del campo di grano appena falciato. Fui soccorsa da alcune donne che spigolavano come se ne vedevano tante nel dopoguerra e portata in casa a braccia. Mia madre spaventatissima trovò la forza di medicarmi tutte le ferite ad una ad una, mi fece bere una camomilla e mi mise a letto. Distrutta anche dal lungo pianto, dormii parecchie ore e quando mi svegliai chiesi subito: “Dov’é la mia bicicletta?” Se questo non è amore…

Il viso gonfio e dolorante che ho portato per diversi giorni, non incrinò minimamente il mio rapporto con la bicicletta. Quello con mio nonno un po’ sì. Era un uomo molto severo e a volte quando si fermava a guardarmi pedalare all’infinito, senza parlarmi, gli si leggeva in faccia tutta la disapprovazione e mi allontanavo da lui più in fretta possibile. Ho sempre avuto soggezione di nonno Filppo. Lo trovavo sempre più burbero e a ben pensare, mai ho avuto tenerezze da lui.

Intanto crescevo e finalmente mi issai sul sellino della bicicletta.

Con la bici andavo a scuola, dalle amiche a fare i compiti, a Messa la domenica. Tutti gli inquilini della della casa dove abitavo pareva avessero sempre commissioni da farmi alla svelta: “Su prendi la bici!” Non ricordo di aver mai detto di no ad alcuno.

Non sono diventata campionessa di ciclismo, sono sempre stata in gara, ma solo con me stessa.

(Lina Cremonini)