Leggere quanto riporta la stampa in seguito ad interviste a medici, inviati della Croce rossa internazionale e volontari in Afghanistan (ho ricevuto anche numerose mail da “Medici senza Frontiere”) fa male al cuore e vien da chiedersi il perchè di tutto ciò, perchè si è giunti a tanto, per quale ragione al giorno d’oggi, in questo mondo oramai vecchio, debbano accadere ed essere sotto i nostri occhi situazioni simili.

Sette persone su dieci, nella capitale, non hanno disponibilità di acqua, ma non per il lusso della doccia, per bere. Al di fuori della capitale e delle altre importanti città la situazione è anche peggiore. Una delle sette religiose (non ha importanza quale delle due per evidente similitudine e rassomiglianza) si è impossessata delle dighe e nel timore che appartenenti alla setta avversaria possano disporre del prezioso liquido hanno chiuso i rubinetti. La povertà ha raggiunto livelli tali che si stima, entro un anno, la morte di almeno un milione di bambini per malnutrizione o carenze tali da provocare l’impossibilità di vita: la fine di un’etnia. L’inverno afghano è alle porte e da quelle parti non scherza: disponibilità di indumenti adeguati, fonti di energia e ricoveri adeguati uguale a zero. Nonostante la drammatica carenza di alimenti, nelle poche campagne si preferisce coltivare papaveri da oppio: rendono molto di più. E gli acquirenti saremo noi, per lo sballo, per procurarci una parentesi di assenza dalla nostra realtà o, forse, per dimenticare tutto questo.

Una domanda viene spontanea: ma cosa siamo andati là a fare, armati fino ai denti, super attrezzati sbandierando polverose e tristi bandiere tricolore ben salde su camionette, o mezzi anfibi, o mezzi blindati pronti a rispondere alle altrui offese. E tutto lo sbandierare di assistenza, di insegnamento, di supporto alla formazione di mentalità e culture diverse (stavo per scrivere tipo le nostre …) dove è andato a finire? Sono bastati tre mesi e tutto è stato cancellato, ammesso che sia mai stato realizzato. Anche solo in parte o anche solo nei sogni irrealizzabili.

Quanto denaro è stato speso e gettato al vento in assenza assoluta di anche un minimo risultato apprezzabile? Quante vite sono state spese? E non conto unicamente quelle dei nostri soldati o inviati, ma anche di quanti locali ci hanno affiancato e di quelli freddati nelle vie, o nelle piazze, o dentro le loro abitazioni per il semplice fatto di aver condiviso un certo modo di vivere.

E delle donne vogliamo parlare? Di quegli esseri immondi colmi di peccato fin dalla nascita che hanno, udite udite, cercato di alzare la testa, di pretendere non dico una parità, ma anche solo una parvenza di possibilità per raggiungerla? E della loro pretesa di studiare? Assassinate nelle case, nelle piazze avvolte in un silenzio disarmante e colpevole. Non ho il coraggio di pensare a quanti si sono trovati nella posizione di dover scegliere, in quelle tremende giornate che hanno preceduto l’abbandono, la rinuncia alla difesa dell’indifendibile, tra chi doveva trovare posto sugli aerei e chi no. E chi vorrebbe trovarsi nei panni di quei genitori che sono riusciti a salvarsi costretti a lasciare là il loro figlio di appena un anno? Ci sarà ancora vita per loro? Quale vita?

Ho davvero finito le parole. Non ne trovo più con un significato tanto crudo e tremendo capaci di descrivere tutta l’evidente incapacità di tutti noi nel saper gestire la libertà degli altri. Un sorriso amaro nel ripensare all’esportazione della libertà, della forma sociale di convivenza, della capacità e consapevolezza di poter vivere anche solo in una parvenza di sistema democratico. Assurdi prepotenti, incapaci, inetti, assurdamente certi di saper insegnare ad altri tutto ciò che neppure noi abbiamo saputo imparare, tanto inetti e instupiditi da essere arrivati al punto di non ritorno per quanto riguarda il mutare del clima assediati dalla costruzione di una civiltà (si fa per dire) costruita su solide basi avvelenate fin dal principio e, quel che è peggio, ben certi e consapevoli dell’esito finale. E siamo andati là ad insegnare! Tronfi del nostro nulla armati unicamente della nostra solida ignoranza. Occorrerà modificare il famoso detto “mors tua, vita mea“, in “mors tua e mea“: ecco, qualcosa in comun l’abbiamo.

(Mauro Magnani)