Bologna. Lo scorso sabato (13 novembre) presso la Sala Cappella Farnese di Palazzo D’Accursio è stata inaugurata “Partecipare la democrazia: storia del PCI in Emilia-Romagna”, una mostra organizzata da Fondazione Duemila e le altre fondazioni culturali promosse in regione dai Democratici di sinistra che racconta molto più della storia di un partito. L’“accumulazione di storie e di memorie, di biografie e di carte, di immagini fisse e in movimento” che si può visitare in questi giorni (fino al 4 dicembre) è un vero e proprio inno alla partecipazione popolare e democratica, una dimensione un tempo fondamentale della vita pubblica.
Dico un tempo perché la partecipazione, vista come impegno costante e necessario per l’emancipazione della persona e con questa della collettività, per quelli venuti dopo la Bolognina ha assunto quantomeno un rilievo diverso. Non confondiamoci, prendere parte alla cosa pubblica era e rimane un imperativo etico prima che politico, il fondamentale primario del mondo della realizzazione, un’utopia concreta che nel mondo dell’1% richiede uno sforzo ingente e una capacità aggregante fuori dal comune per diventare realtà. Lo scenario è però cambiato da allora, la mancanza di punti di riferimento si è vieppiù tradotta in tante assenze dell’immaginario, premessa indispensabile per un domani diverso.
Come messo in evidenza nel corso della presentazione di sabato mattina dalla presidentessa della Fondazione Nilde Iotti, Livia Turco, e dalla presidentessa dell’Istituto Alcide Cervi, Albertina Soliani, la storia comunista nella nostra regione è quella di un’esperienza che ha inteso la politica come lo strumento comune per fare avanzare le condizioni del popolo. I punti di riferimento, si diceva. I circoli del PCI erano questo, le case del popolo luoghi di incontri, il dialogo con la classe politica uno scambio costante. Fondato sul riconoscimento dei bisogni, dei passi da compiere per migliorare la condizione della comunità a partire dalla sua voce.
Pensiamo al dibattito oggi veicolato più sui social network che nei contesti di aggregazione reali. Quanti di noi oggi guardano alle piattaforme digitali come a uno spazio – che sentiamo come – “nostro”? La forza dei partiti, prima ancora delle abilità retoriche e di governo, stava nel dare vita a un percorso di condivisione nei luoghi, e non sopra i luoghi, della vita insieme: in fabbrica, a scuola. Nella distribuzione porta a porta dell’Unità e, in ogni caso, nella straordinaria importanza assunta dalla cultura in quel progetto politico, fattore sottolineato sempre sabato mattina da Carlo de Maria (curatore del progetto) e Mauro Roda (Presidente della Fondazione Duemila). Il mondo comunista che troverete nella mostra è il mondo della vita in comune: non una sequenza di scene separate, staccate dal contesto reale della cittadinanza. Il Partito in quei 50 anni è stato un corpo radicato nel territorio, o meglio nel tessuto quotidiano delle necessità: la mostra riesce meglio proprio nel delineare i contorni passati di una forza popolare, e non populista.
Vorrei chiudere con un invito a visitare la mostra, l’attimo di un’ultima divagazione. Negli ultimi giorni ho letto l’ultimo libro di Fabrizio Barca (2021): nella prima parte, il suo interlocutore Fulvio Lorefice sostiene che per la sinistra odierna “il termine sviluppo è sostanzialmente impronunciabile” perché esso viene visto come “un generico cambiamento che non corrisponde ai bisogni primari di chi lavora”. Cento anni dopo Livorno, i bisogni primari non sono soddisfatti, un cambiamento si rende sempre più urgente. Mai come ora abbiamo bisogno di uno sviluppo incentrato sulla comunità, radicato nel territorio e svincolato dalle logiche della violenza predatoria che, su tutta la superficie terracquea, insistono nel moltiplicare le fragilità. In quest’ottica, Partecipare la democrazia potrebbe essere un buono spunto per individuare, almeno, il punto di partenza.
(Alberto Pedrielli)