Mi sono innamorato di Murakami quasi alle prime righe (di «Kafkfa sulla spiaggia») e da lì è stato un amore crescente. Dandomi del cretino perchè ben tre persone care da anni mi martellavano: «devi leggere Haruki Murakami»… e io rimandavo, facendomi scoraggiare dai prezzi e dalle molte pagine. Così, dopo «Kafka sulla spiaggia» ho acquistato (per lo più nell’edizione economica in edicola) e, nel giro di un annetto, ho divorato tutto quanto di Murakami è stato tradotto in italiano. Urlando «ancora…» perchè la passione cresceva. Da molti anni non trovavo uno scrittore o scrittrice che così tanto mi invadesse l’anima. Beh, ogni tanto un raccontino o un capitolo mi hanno deluso; e io preferisco il Murakami surreale a quello “realista”… ma sono particolari che non cambiano il quadro dell’innamoramento.
Strada facendo mi son reso conto di avere qualcosa in comune con Murakami: l’età, la passione per le corse lunghe (ma lui si è impegnato, con una certa regolarità, in maratone mentre io non sono andato oltre la 20 chilometri) e il jazz. Così vado a raccontarvi, quasi nota per nota, come il jazz entra nelle storie di Haruki (nome) Murakami (cognome) che però nelle copertine italiane troverete indicato, in ossequio alla convenzione giapponese, come Murakami Haruki.
Il jazz nei suoi romanzi
«Vento & Flipper» riunisce (nell’edizione italiana) due romanzi brevi – cioè «Ascolta la canzone del vento» e «Flipper 1973» – scritti a inizio carriera da Haruki Murakami. Nell’introduzione racconta come da “barista jazz” si trasformò in scrittore: nel 1974 «decisi di aprire un locale mio. Un posto dove la gente potesse ascoltare jazz, bere un caffè, mangiare un boccone. Poichè adoravo il jazz, sarebbe stato piacevole averlo nelle orecchie dal mattino alla sera…». Senza entrare nelle due trame ecco dove incrociamo la musica. Nel 15esimo capitolo del primo romanzo il protagonista entra in un negozio per comprare California Girls dei Beach Boys, Glenn Gould («il terzo concerto per pianoforte di Beethoven») e «qualcosa di Miles Davis dove ci sia A Gal in Calico». Poche pagine dopo sul giradischi c’è il Modern Jazz Quartet. Pazientate chè il bello deve ancora venire.
I capolavori della musica scandiscono il romanzo «Nel segno della pecora» del 1982 però c’è meno jazz del consueto. In pratica ci dobbiamo accontentare della Benny Goodman Orchestra con «Charlie Christian in un lungo assolo».
Nel 1985 Murakami pubblica «La fine del mondo e il Paese delle meraviglie». Nel viaggio a cavallo fra due mondi ci sono Mozart e i non molto stimabili Duran Duran, c’è Bruckner e molto altro. Quando leggerete meglio tener d’occhio (d’orecchio?) la canzone Danny Boy: potrebbe essere “la chiave”. Per il jazz al capitolo 17 incrociamo di corsa Charlie Parker, ci imbattiamo (cap 23) nell’elogio di un bar dove si ascolta Vendome del Modern Jazz Quartet. Nel 35esimo capitolo prima si ironizza su chi mette i dischi di Benny Goodman nel jukebox, poi c’è una «compilation di Jackie McLean, Miles Davis, Wynton Kelly». E «aspettando la pizza ascoltammo Bag’s Groove e Surrey with a Fringe on Top». Nel penultimo capitolo leggiamo: «La musica di Duke Ellington era adattissima a una bella mattinata di ottobre. A parte il fatto che sarebbe stata perfetta anche per festeggiare il capodanno in una base al Polo Sud. […] Mentre guidavo accompagnavo fischiando Lawrence Brown in Do Nothing till You Hear from Me, poi Johnny Hodges in Sophisticated Lady». E noi che amiamo il jazz ci scaldiamo sempre più.
Nel 1987 il successo internazionale arriva a Murakami con «Norvegian Wood (Tokio blues)». Musica ovunque e di ogni genere ma è il jazz a dominare. Waltz for Debbie di Bill Evans (capitolo 3), una foto di Miles Davis «e in quel modo la stanza diventò un po’ più mia» (cap 4), di nuovo Bill Evans. Poi: «a volte le insegnavo un po’ di jazz facendo l’imitazione di alcuni pianisti. Questo è Bud Powell, quest’altro Thelonious Monk» (sesto capitolo). «Ascoltavo in silenzio Honeysuckle Rose suonata da Thelonious Monk» nel settimo capitolo dove c’è anche una battutaccia su quelli che ascoltano John Coltrane «e si esaltano con i film di Pasolini»… senza capire nulla; sempre nel cap 7 c’è un piccolo mistero (o un errore di traduzione?): il protagonista ascolta «un disco di Ornette Coleman e Bud Powell» che però non risultano aver suonato insieme… almeno nello spazio-tempo dove ci troviamo. Nel successivo capitolo ecco Kind of Blue di Miles Davis «per l’ennesima volta» e ancora «una vecchia love song di Sarah Vaughan». Il decimo capitolo si apre sul 1969: «era un periodo di grandi cambiamenti per il resto del mondo. Molti morirono, John Coltrane fu uno di questi». Quest’ultima frase è mal tradotta oppure la memoria dell’autore ha fatto cilecca perchè “Trane” è morto ancora più giovane purtroppo, nel 1967. Ah, i melomani meno distratti ricorderanno che la Norvegian Wood del titolo è dei Beatles.
Jazz a strabordare (ma anche Mozart, Eric Clapton, Springsteen, Schubert e bella compagnia) in «Dance Dance Dance» del 1988. Via via ecco «i raffinati assolo di Jerry Mulligan» (capitolo settimo), «il jazz freddo e puro della West Coast» (capitolo 19), Count Basie (cap 20), fumo e Wheather Report (21), Art Farmer e – sentite qui – «un disco di Arthur Prysock che canta accompagnato dalla Count Basie Orchestra. Un capolavoro assoluto. Comprato nel 1967. Erano 16 anni che lo ascoltavo senza stancarmene» (capitolo 23). Incrociamo poi Ballads di John Coltrane (cap 25), due volte Red Clay di Freddie Hubbard, e «un attempato clarinettista fece un lungo assolo, un numero di qualità degno di Artie Shaw». Poi «la radio sintonizzata sul programma di jazz che trasmetteva brani di Coleman Hawkins e Lee Morgan […] mi concentrai sulla guida, canticchiando insieme alla radio Stuffy e The Sidewinder con un tono a metà tra il fischio e il sibilo» (30esimo capitolo) per finire con «un disco di Bill Evans» (cap 34).
Molta musica e di ogni tipo in «A sud del confine, a ovest del sole» del 1992. Si inizia con «un trio jazz» che esegue Corcovado. Poi irrrompe il Duca: nell’ottavo capitolo – incrociamo un primo elogio di Ellington e di The Star-Crossed Lovers («dall’lp Such Sweet Thunder»): «c’era un assolo delicato e raffinato di Johnny Hodges». Nel quattordicesimo capitolo eccola di nuovo: «è una canzone particolare e lo si può capire solo riascoltandola più volte. E poi non tutti sono in grado di suonarla. The Star-Crossed Lovers è stata composta da Duke Ellington e Billy Strayhorn molto tempo fa, credo nel ’57 […] Significa “amanti nati sotto una cattiva stella” … Si riferisce a Romeo e Giulietta. Faceva parte di un insieme di pezzi che Ellington e Strayhorn avevano composto per il Festival shakespeariano dell’Ontario. Nell’esecuzione originale Johnny Hodges al sax contralto faceva la parte di Giulietta e Paul Gonsalves al sax tenore quella di Romeo». Nel finale del libro il protagonista chiederà – non posso dirvi il perchè, sarebbe un delitto – al pianista «di non suonare più The Star-Crossed Lovers» … anche se lui la esegue «divinamente»: «forse al mondo non ci sono tante persone che la suonano bene come te». E ancora. Nel nono capitolo si discute di Charlie Parker: «io ascoltavo con attenzione il lungo assolo di Embraceable You del bassista». Fuori dal locale invece il protagonista ascolta soprattutto musica classica; lo racconta nel 14esimo capitolo ed è qui che incontriamo anche Nat King Cole; ah, casomai non lo sapeste A sud del confine è una sua canzone.
Il 1997 è l’anno della prima edizione di «Ritratti in jazz» con 55 brevi testi di Haruki Murakami a commentare i dipinti di Wada Makoto. Abusivamente lo inserisco fra i romanzi perchè prevale, secondo me, la continuità di una trama con tanti protagonisti (anche loro seduti con noi in un jazz club fuori dal tempo?) mentre Murakami recupera passione e ricordi. In quarta di copertina leggiamo «Murakami riesce veramente a farti “sentire” il brano o il disco in questione» e non si tratta di un’esagerazione. Dovrei indicare tutti i nomi ma… svicolo, sperando che già abbiate il libro o che presto lo comprerete. Aggiungo però una subdola domanda che noi “matt-jazz” (intendo jazzofili un po’ matti) inevitabilmente ci facciamo. Se fra i 55 mancano un paio di grandissimi è per scelta di Murakami… o di Makoto? Ah, saperlo.
«L’uccello che girava le viti del mondo» è un romanzo del 1999 che amplia il racconto omonimo. E’ diviso in tre parti con titoli che subito rimandano alla grande musica: «La gazza ladra» (ovviamente di Gioacchino Rossini), «L’uccello profeta» (di Robert Schumann) e «Il flauto magico» (di Wolfgang Amadeus Mozart). Qua e là affiorano anche Bach, i Beatles, Haydin, Handel e molto altro. Ma il jazz? Quasi subito ci imbattiamo nello splendido «Sketches of Spain» di Miles Davis, E leggete qui: «era come se Dolphy con le note del suo clarinetto avesse cercato di spiegare al Dalai Lama sul letto di morte l’importanza della scelta di un olio nel motore»). Oppure qui: «chissà se era concepibile che gli appassionati del jazz di Albert Ayler, Don Cherry o Cecil Taylor diventassero gestori di una tintoria». E ancora qui: «gli altoparlanti neri incassati nel soffitto diffondevano a basso volume uno di quei piano solo errabondi di Keith Jarrett».
Nel 1999 Murakami pubblica anche «La ragazza dello Sputnik». Tantissima musica classica ma anche un veloce «occhiali alla Gillespie» con qualche riferimento al jazz.
Nel 2002 «Kafka sulla spiaggia» fa circolare il nome di Murakami in mezzo mondo, soprattutto grazie al passaparola di chi si innamora di questo romanzo. C’è anche tanta musica e nelle pagine molto si discute di quanto essa possa davvero cambiare le persone. «Ascoltando una certa musica si sperimenta qualcosa. E’ una specie di reazione chimica. Poi, in seguito, esaminando noi stessi, ci accorgiamo che il nostro mondo ha acquistato grandezza e profondità. A me è capitato. E’ raro ma succede. Come innamorarsi». Il ragazzo ascolta musica col walkman, per esempio Crossroads di Duke Ellington: «musica di un’epoca lontana che ho registrato da cd trovati in biblioteca». E ancora: «da quando sono scappato di casa ascolto sempre la stessa musica […] Radiohead, Prince e My Favorite Things di John Coltrane». Poi, nel 41esimo capitolo, il ragazzo «per riempire il silenzio fischietta My Favorite Things nella versione per sax soprano di John Coltrane». E chiarisce: «naturalmente il mio fischiettare maldestro non può competere con la finissima tessitura di suoni prodotta dalla sua complessa improvvisazione […] Non sarà un capolavoro ma è meglio di niente». E nella pagina seguente: «Senza neanche accorgermene ho smesso di fischiettare l’assolo di sax soprano di John Coltrane. Adesso ho nelle orecchie un assolo di piano di McCoy Tyner. La mano sinistra mantiene un ritmo uniforme mentre la destra infila note dense e cupe. La musica sembra descrivere una sorta di scena mitologica in cui il passato oscuro di qualcuno […] viene trascinato fuori dal buio ed esibito in ogni sua parte.. O perlomeno è così che questa musica risuona in me. Il suo ripetersi paziente poco alla volta demolisce la realtà, e la ricompone. Ha un profumo pericoloso, ipnotico».
In «After Dark» (2004) fra i protagonisti c’è un giovane jazzista. Non per caso – ma per omagggio a Monk – il libro si apre con le lancette di un orologio disegnate a indicare che manca poco a mezzanotte. Quasi all’inizio una fanciulla mostra una certa conoscenza musicale riconoscendo al volo il trombone. Così il ragazzo le spiega come si è innamorato di quello strumento: «Quando ero alle medie, per caso in un negozio di dischi usati ho comprato un lp di musica jazz che si chiamava Bluesette. Un vecchissimo 33 giri. Chissà perchè l’ho comprato. Era la prima volta in vita mia che ascoltavo jazz. In ogni modo il primo pezzo sul lato A si intitolava Five Spot After Dark. Era fantastico. Al trombone c’era Curtis Fuller. La prima volta che l’ho sentito ho avuto l’impressione che mi cadessero le squame dagli occhi. E’ lui, mi sono detto, è il mio strumento. Il trombone e io. Un incontro fatale».
Quando la ragazza risponde che conosce quel brano lui rimane molto colpito. Nel quinto capitolo (l’orologio ormai segna quasi l’una e venti) in un bar «in sottofondo un vecchio disco di Ben Webster, My Ideal, in una registrazione degli anni Cinquanta» e poche pagine dopo il barista fa partire Sophisticated Lady di Duke Ellington: «un languido assolo al clarinetto basso di Harry Carney». Nelle pagine successive incrociamo Bach e Scarlatti (quale non ci viene detto) ma è nel sedicesimo capitolo – con le lancette poco prima delle 5 antimeridiane – che i ragazzi suonano: «Sono dieci. Tra di loro due ragazze […] Sul sottofondo della tastiera, del basso acustico e della batteria, Takahashi sta facendo un lungo assolo al trombone. E’ Sonnymoon di Sonny Rollins». Quasi una pagina in cui Murakami racconta come suonano. Si fanno le 05 e il jazz finisce qui. «La notte finalmente è terminata. Prima che le tenebre tornino a visitarci, c’è ancora tempo»: è la chiusura del libro.
Il 2009 è l’anno in cui i tre libri di «1Q84» consacrano Murakami ad autore di culto (non più di nicchia stavolta…). Come sa chi lo ha letto il romanzo inizia con un taxi dove risuona la Sinfonietta di Janacek. Ma poi fra molto Bach e un po’ di Queen ecco i nostri: Sweet Lorraine di Nat King Cole e Charles Mingus di sfuggita. Poi due volte “Satchmo”; vale citare estesamente anche se … non per intero. Lei «aveva una predilezione speciale per il disco in cui il giovane Armstrong cantava i blues di W. C. Handy. Lì Barney Bigard suonava il clarinetto e Trummy Young il trombone […] “sulla tromba e la voce di Louis naturalmente nulla da eccepire, è straordinario. Ma a mio parere devi ascoltare con la massima attenzione soprattutto il clarinetto di Bigard”. In effetti nel disco Barney Bigard aveva avuto poche occasioni di fare degli assolo, ed erano per giunta molto brevi […] Lei però aveva memorizzato quei pochi assolo uno a uno, con devozione, e li accompagnava sempre canticchiando a bocca chiusa». E ancora, a proposito del lato B dell’lp Atlanta Blues: «Ecco, ascolta bene. Prima c’è una specie di lungo urlo che ti fa sobbalzare […] Poi si trasforma in un sospiro di piacere, avanza serpeggiando […] Ecco, senti. Un assolo così, capace di farti rimescolare tutto, non può farlo nessun altro. Jimmie Noone, Sidney Bechet, Pee Wee Russell, Benny Goodman sono stati tutti clarinettisti eccellenti ma nessuno di loro sarebbe in grado di realizzare un cesello di questa finezza». E dopo 200 pagine ecco le copertine di vecchi dischi di jazz mentre «sul piatto c’è Chantez Les Bas cantato da Louis Armstrong. Era una canzone notevole […] Nell’ultima parte del brano Trummy Young si scaldava parecchio al trombone, dimenticandosi di finire l’assolo come previsto ed eseguiva 8 battute in più dell’ultimo refrain».
Anche in «L’innocente Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio» del 2013 siamo accompagnati da molta musica: Franz Liszt e in particolare Le mal du pays (viene più volte citata l’esecuzione di Lazar Berman). «Quella melodia tranquilla riusciva, poco a poco, a mettere una cornice alla tristezza informe del suo cuore. Come se innumerevoli granelli di polline fossero venuti a posarsi sopra una creatura invisibile che si nascondeva nell’aria, facendone emergere la forma segreta». Ma il jazz? Per esempio: «dopo aver verificato le condizioni del piano… Midorikawa attaccò ‘Round Midnight. Sembrava esitante. All’inizio suonava ogni accordo con cautela, circospetto, ricordava una persona che mette un piede nell’acqua di un torrente per tastarne il fondo e controllare la velocità della corrente. Arrivato alla fine del tema principale si lanciò in una lunga improvvisazione […] Il giovane Haida di jazz non ci capiva granchè ma, per puro caso, conosceva quel pezzo di Thelonious Monk e sentiva che l’esecuzione di Midorikawa non solo aveva carattere: era proprio splendida. C’era una profondità d’animo che faceva dimenticare le cattive condizioni del pianoforte […] Era la prima volta che Haida vedeva una persona così profondamente assorta in qualcosa. Non riusciva a staccare gli occhi dalle dita di quell’uomo che si muovevano come dotate di vita propria».
«L’assassinio del commendatore», datato 2017: altro successo internazionale. Come avrete ormai capito Murakami è un ascoltatore onnivoro: pop, Puccini, tutta la classica (in modo particolare un certo Mozart come forse il titolo del romanzo “suggerisce”) e Bruce Springsteen in cuor gli stanno ma nelle sue vene scorre tantissimo jazz: Pyramid del Modern Jazz Quartet prima e poi «dai vecchi altoparlanti Billie Holiday e Clifford Brown». Ma c’è così tanto jazz in Murakami che lo usa perfino come termine di paragone. Quando deve spiegare «la gamma di variazioni… di un suono generato da uno stesso gesto» (sportelli d’auto, nientemeno) se ne esce così: «Quasi quanto differisce la stessa nota suonata al contrabbasso, su una sola corda, da Charles Mingus o da Ray Brown». E perfino la creartura che noi nel libro conosceremo come “il commendatore” sa muoversi nel jazz: «Prendete Thelonious Monk, a esempio. I suoi incredibili accordi non è che li abbia creati con il ragionamento e la logica. Semplicemente apriva bene gli occhi e li tirava fuori dalle tenebre della sua coscienza. L’importante non è creare qualcosa dal nulla. Ciò che voi dovete fare, piuttosto, è trovare la cosa giusta in quello che già esiste ora». Chi ama Monk batterà le mani, addolorandosi di averne solo due.
Il jazz nei suoi racconti
L’antologia «Tutti i figli di Dio danzano» nel 2005 riunisce 6 racconti che più diversi non si può; forse l’unico tratto comune è il tremendo terremoto di Kobe nel 1995 sullo sfondo. Anche le colonne sonore che accompagnano le storie sono assai varie: Bill Evans e Beatles, Pearl Jam, Beach Boys ecc. Nel racconto «Thailandia» due pagine d’amore per il jazz a “suon” di I Can’t Get Strarted («Howard McGhee alla tromba, Lester Young al sax tenore… nella versione della JATP» e poi con I’ll Remember April di Eroll Garner («Concert by the Sea era il disco preferito del padre»). Subito dopo il Benny Goodman Sextet e questo «assolo di un sax tenore dal timbro profondo» che vale la pena ascoltare (leggere, se preferite) per esteso: «Ascolta questo brano. Segui attentamente l’improvvisazione di Coleman Hawkins, nota per nota. Tendi bene l’orecchio per capire che cosa cerca di dirci con quelle note. Racconta la storia di uno spirito libero che tenta in tutti i modi di fuggire dal suo petto».
Nel 2006 Murakami raccoglie in «I salici ciechi e la donna addormentata» ben 24 fra racconti, frammenti autobiografici e articoli scritti nel ventennio precedente. C’è meno musica del consueto però nel lungo «Nausea 1979» il protagonista ricorda che «l’ultima telefonata l’ho ricevuta quella sera alle 10 e 25 mentre ascoltavo Concert by the Sea di Erroll Garner». Nello stranissimo – anche come scrittura – «Percorsi del caso» l’autore ci piomba al Regattbar di Cambridge mentre suona il trio di Tommy Flanagan, «uno dei miei pianisti jazz favoriti»: due pagine perfette per i fans. E subito dopo Murakami è «in un negozio di dischi usati» dove frugare «è uno dei pochi piaceri che rendono la vita degna di essere vissuta». Quel giorno trova «una vecchia edizione di 10 to 4 at the 5 Spot, registrata dal Pepper Adams Quintet per la Riverside e per caso incontra il dio del jazz o forse il Caso (un piccolo episodio che non vi posso svelare … oggi che lo spoiler è stato definito l’ottavo peccato capitale).
Nel 2009 Einaudi ha pubblicato sotto il titolo «L’elefante scomparso e altri racconti» 17 storie scritte da Murakami fra i primi anni ’80 e il 1999. Il jazz viene citato 4 volte. La prima comparsa è poco significativa: un jazz bar. Invece nel racconto «Granai incendiati» meglio seguire con calma i protagonisti: dopo vecchi dischi di Fred Astaire e Bing Crosby, «in mezzo c’era una serenata di Cajkovskij», poi Nat King Cole ed eccoci all’ascolto di Airegin di Miles Davis per tornare (dopo uno spinello) a un valzer di Strauss. Nel racconto successivo («Il nano ballerino») il protagonista dorme quando un nano gli chiede di ballare. «Rifiutai educatamente […] Il nano non se la prese e si mise a ballare da solo […] Danzava al ritmo di un disco di Charlie Parker». Nella storia intitolata «Affare di famiglia» sullo stereo c’è «un disco nuovo di Herbie Hancock».
Molta musica di ogni tipo in «Uomini senza donne», un’antologia (del 2014) con 7 storie «d’amore e di mistero». Nel secondo racconto – «Yesterday» – si ricorda che «la musica ha il potere di resuscitare i ricordi con tale fedeltà, con tale intensità, che a volte fanno male». Per restare al jazz nel geniale «Kino» incrociamo Coleman Hawkins: «un lp in cui era inclusa Joshua Fit the Battle of Jericho. L’assolo del contrabbassista Major Holley era straordinario» e poco dopo compare una donna e «chiede di metterle un disco di Billie Holiday. “Uno dei primi, se possibile” […] Posò sul piatto un vecchio lp della Columbia che comprendeva Georgia on My Mind». Poi è la volta di «Erroll Garner in Moonglow, Buddy De Franco in I Can’t Get Started». Nel racconto che dà il titolo all’antologia c’è una riflessione assai bella sulla solitudine delle donne e le infinite variazioni: «in quel mondo anche la vibrazione dei suoni è diversa […] Persino gli assolo di Clifford Brown ti sembrano differenti».
Arriviamo a quest’anno: Einaudi pubblica «Prima persona singolare» con 8 racconti di Murakami. Qua e là si affacciano «i dischi di Miles Davis e Thelonious Monk». E potete leggere frasi tipo: «Quanto a me preferivo mille volte John Coltrane nella sua magica interpretazione di My Favorite Things» oppure «Le parlai di Miles Davis e Art Pepper» ma anche «in sottofondo un vecchio lp di Joni Mitchell». E per inciso: «Mah, forse capitano a tutti giorni così. A Django Reinhardt sarà successo di non pizzicare la corda giusta». Però – vi prego – fate attenzione a quanto sto per scrivere: il terzo racconto di questa antologia è meraviglioso, vale da solo il prezzo del libro almeno per chi ama il jazz. Si intitola «Charlie Parker plays Bossa Nova»: sin dall’inizio “Bird” torna a vivere… ma altro non vi dirò. Come scrive Murakami: «Ci potete credere? Spero proprio di sì. Perchè è una cosa accaduta davvero».
Termino qui, aspettando – spero in vostra compagnia – i prossimi Murakami.
(Daniele Barbieri)