Roberto porta i pensieri nelle scarpe. E ne ha già consumate tre paia. Sono quasi due anni che Roberto cammina. Ogni giorno, due volte al giorno.
La prima di mattina, subito dopo la colazione, per dare aria ai pensieri del giorno precedente.
La seconda nel tardo pomeriggio, dopo aver trascorso la giornata a riempirsi la testa di pensieri nuovi da portare a spasso per decantarli. Roberto ama camminare ma non è certo un fanatico.

È uno sportivo, secondo la categorizzante vulgata, e negli anni ha trovato in alcuni sport amati il modo di sfogare le tossine interiori dell’esistenza. Sport dove ritrova la vita, piena e senza compromessi, dove le emozioni sono pura espressione e non sottoposte al giudizio altrui. Ma nel tempo sospeso come una mongolfiera che non scende più, certi sport non si potevano più fare.
Nella vita di Roberto, tutto era diventato sospeso, anche il lavoro, che come quello di tanti, richiedeva di essere svolto in presenza. Roberto sentiva di aver perso quasi ogni cosa, di essere stato gettato in una fossa che qualcun altro avrebbe riempito fino a seppellirlo. Era vivo, certo, ma non era consolante esistere sotto vetro.
Vivere senza realtà era comunque una forma di morte. La bestia aveva prepotentemente ravvivato il memento mori, che nella liquida superficialità di questa epoca, molti avevano chiuso a chiave nello sgabuzzino della realtà. Ma, Roberto rifletteva ad alta voce, anche il memento vivere era fondamentale, specie adesso. Fu quindi all’emanazione del primo di tanti odiosi DPCM che Roberto decise di interpretarlo a modo suo e leggerlo come un acronimo: Devi Poter Camminare Molto.

Da quel giorno, anche contro i regolamenti, Roberto decise che camminare sarebbe stata la sua resistenza, a piedi armati. D’altronde la libertà non è qualcosa che ti danno ma è ciò che scegli, giorno per giorno.
E già da molto tempo prima del tempo immobile di questo terribile inferno, rimuginava sul fatto che la maggioranza delle persone preferisce e sceglie il lutto alla lotta. Non era un semplice scambio di vocali ma una profonda constatazione: invece che sgominare la realtà affermando se stessi nel tentativo di forgiare la vita a propria immagine, tanti preferivano comprarla a buon prezzo al mercatino dell’usato oppure sceglievano l’anonimato passivo, una chiusura in se stessi che non era resistenza ma una fuga codarda, un lutto interiore preventivo, appunto, per non morire sul campo di battaglia del confronto con se stessi.
Un’assunzione di non partecipazione, un patto di non belligeranza per non rischiare di rimanere delusi dimenticando che è il rischio ad essere il motore che fa girare il mondo. Ed ora che il lutto era diventata la cifra quotidiana della realtà, anche se non direttamente e personalmente toccati da esso, Roberto vedeva sempre più anime listate di nero. Un lutto permanente a prescindere dal fatto che si concretizzasse in un decesso. Una sorta di abdicazione dalla vitalità. Per questo, forse, quando la bestia è arrivata, ha trovato terreno fertile: coscienze già da tempo senza fiato.

Camminare era quindi la sua lotta quotidiana, un modo di essere e affermare la sua esistenza: cammino dunque sono. Anche contro le regole e i controlli. L’unica volta che fu fermato per chiedergli dove abitasse e a quanti centimetri di distanza fosse dalla sua residenza rispose, aiutandosi con la testa che indicava un punto: “Lí!”. Perché in linea d’aria era effettivamente vicina la sua casa: la vedeva.
Gli estensori del decreto avevano considerato la linea d’aria? I poco vigili, e poco urbani, lo guardarono interdetti ma lo lasciarono andare anche per il dislivello in cui si trovava rispetto a loro, essendo lui sull’argine del fiume e loro sotto, impigriti nella loro macchina da cui non vollero scendere.

All’inizio erano camminate intorno al perimetro di casa, poi a carezzare gli argini del fiume e infine, in un crescendo inevitabile, Roberto allungò verso la campagna, il più lontano possibile. Voleva mettere più chilometri possibile fra sé e il tempo. Camminare era vivere. Più camminava e più si sentiva vivo. E la sua camminata diventò un percorso lungo e indefinito.
La strada che Roberto percorreva era quasi tutta amaramente asfaltata. Ma amava quando essa si apriva sulla campagna circostante e come piano piano i suoi occhi si colorassero di verde e si interrassero nel campo arato di qualche contadino a ritrovare l’humus da cui veniamo.
Odori e suoni ancestrali, spesso dimenticati, che lo facevano riconnettere con la sua vera essenza.
Conigli, anatre, galline, cani, erano gesti, musi, versi da scrutare e imparare.
I cani, già. Ne incontrava tanti nei suoi percorsi. Dietro recinti e cancelli. Roberto non sapeva tanto sugli animali e i cani in particolare gli generavano infinite curiosità. A guardare dentro quegli occhi si chiedeva per esempio come facessero a resistere al freddo a volte rigidissimo oppure se lo riconoscevano quando passava, se avevano memoria di lui, visto che si incrociavano ogni giorno. E se lo chiedeva perché a volte quei cani abbaiavano forte quando lui arrivava, altre lo guardavano in silenzio, altre volte sembravano annuire. Ma poi si diceva che era impossibile si ricordassero di lui perché non lo avevano annusato e l’odore, credeva, era la stretta di mano di un cane. Che non c’era stata.

Di uno, un rauco boxer, sapeva il nome, Ettore, perché lo aveva letto sulla targhetta del cancello. Roberto si divertiva a chiamarlo ed Ettore si voltava sempre, rispondeva a quel richiamo. Solo che adesso era lui a portare la museruola. Quel guardarsi fissi era come un saluto. Ed era convinto che anche a Ettore la pensasse cosí. Molto meglio di alcuni amici, pensava Roberto, che non si voltano più quando li chiami.

La strada costeggiava anche un grande fiume e un paio di assenti affluenti. A Roberto si stringeva il cuore vedere quei letti scavati e preparati ad accogliere ma inconsolabilmente vuoti e secchi. Era come un amore non corrisposto, e gli dava una tristezza enorme quella immagine, al punto che avrebbe voluto prendere un tubo di gomma per annaffiarli.
Bastava la solitudine umana a rabbuiarlo per non dover sopportare anche quella della natura. Queste camminate di Roberto erano ritmate da incontri, osservazioni, introspezioni. Gli incontri non andavano più in là di un buongiorno o buonasera ma con gli abituali frequentatori di quelle strade, era comunque cresciuta una tacita familiarità che però rimaneva nell’alveare del riconoscimento visivo. Con gli altri, estemporanei viaggiatori, si era sviluppato uno strano anti-galateo che andava a sostituire quello di più antica consuetudine.
Se infatti, in tempi ormai andati, alzare il cappello in segno di saluto tutte le volte che si incrociava qualcuno era la norma, oggi alzarsi la mascherina al crocevia dell’alterità era la forma di non saluto più comune.

Paura e diffidenza erano ormai le indotte nuove forme di convivialità. I più recenti biglietti da visita con cui presentarsi in società. Nascondersi ancora prima di conoscersi. “Che umanità fragile siamo diventati!” pensava Roberto.
Da tanto tempo vi rifletteva. La bestia ha solo rivelato quella che di fatto aveva preso forma. Eravamo già chiusi in lockdown mentali, estraniati dalla realtà circostante in cui gli altri facevano capolino solo se ammessi, temporaneamente, nella chat della propria anima.
La bestia aveva solo amplificato tutto. Roberto andava dicendo e predicando da tempo che siamo diventati digitali senza impronte: non lasciamo più il segno, non ci facciamo più imprimere dalla realtà e dagli altri. Che se ce le prendessero, le impronte, probabilmente non troverebbero nulla.
Lockdown senza introspezione, segregati dietro schermi a cristalli liquidissimi dove prolifera il nulla autoreferenziale.

Al punto che i lockdown fisici imposti dall’alto sono maldigeriti proprio per l’obbligo di dover guardare negli occhi un altro da sé, invece che distrattamente e di sfuggita come accade di solito.
Guardare un volto per più di dieci secondi, riconoscersi in quello sguardo è diventata sfida impossibile, a cui si rinuncia. E farlo innesca un’esplosione psichica che manda in frantumi. Ecco perché, in fondo, alzare la mascherina, non è poi così difficile. È quasi un gesto benefico e benedetto per evitare un’esposizione imbarazzante.

Roberto non sapeva come si chiamassero tutti quelli che incontrava o salutava nel suo vagabondare. Avrebbe voluto fermarli per chiederglielo ma nessuno si fermava. Tutti andavano, non sapeva dove, ma nessuno sembrava dare il fianco ad un possibile scambio.
Anche quando Roberto rallentava, invitando ad un ipotetico dialogo, gli altri quasi acceleravano. Non si dannava per questo, era comprensibile, diceva a se stesso. Vivere nella paura del contagio portava a questo.
Ma se la paura di essere contagiati dall’estraneità esistesse anche da molto prima? Di vedere gli altri come ostacoli da abbattere nel videogioco della quotidianità per passare il livello e dormire tranquilli?
Roberto ne era convinto. Allora, non conoscendoli, si inventava dei nomi per loro. Ad esempio, quasi ogni giorno, di solito il pomeriggio, Roberto incrociava Enrico. Quando Enrico lo vedeva, o vedeva qualsiasi altra persona, si zittiva. Altrimenti la peculiarità di Enrico, e Roberto si era fermato molte volte per osservarlo a distanza, era quella di parlare ininterrottamente ad alta voce.
Sì, Enrico parlava da solo, o forse parlava con qualcuno che anni addietro non lo aveva ascoltato e a cui Enrico voleva a tutti i costi far conoscere i suoi pensieri, le sue ragioni. Quasi tutti lo avrebbero chiamato pazzo, e di certo vi era una certa instabilità in quel comportamento, ma Roberto pensava che Enrico fosse solamente solo, troppo solo. E si era inventato una storia per lui. Si era immaginato che Enrico parlasse ad un amore svanito, all’amore della sua vita che per qualche motivo lo aveva abbandonato.

Roberto non era mai riuscito a distinguere quello che Enrico proferiva ma il ritmo serrato, e spesso arrabbiato, di quel monologo aveva l’aria di un dolore spalancato, un frutto aperto di netto in due che non si può più ricomporre. Un dialogo che si era interrotto e a cui Enrico non si era rassegnato. Era come se Enrico non avesse finito di esprimere quello che aveva da dire e allora ogni giorno lo ripeteva a se stesso ad alta voce, lo ripassava, lo praticava, nella speranza che la persona a cui era destinato si facesse viva prima o poi.
Simulava anche la parte di lei, e Roberto non capiva se quella parte era ciò che Enrico aveva ascoltato e lo aveva tranciato in due o era ciò che avrebbe voluto sentirsi dire ora.
Enrico cammina e parla, parla e cammina. Senza meta, probabilmente senza metà. Quando passa vicino a qualcuno e si zittisce di colpo, Enrico diventa un bambino colto in fallo, e Roberto non può fare a meno di addolcirsi.

L’amore, se di amore si trattava, a volte è una cerniera lampo incastrata che non scorre più. L’amore tuttavia è anche folgorante bellezza. Come quella di due anziani che Roberto scorge ogni tanto. Una volta, con il telefono, li ha anche fotografati, per quanto erano commoventi.
Mano nella mano inequivocabilmente passeggiano a passo lento lungo un breve tragitto probabilmente vicino casa. Non si saprebbe dire chi dei due regge l’altro e lo trasporta. Si piegano a metà uno sull’altro e ondeggiano come fossero una cosa sola, una trasparente bolla di sapone tenerissima che non scoppia ma: anzi si espande, come il sorriso di Roberto.
È la loro oretta d’aria per uscire dalle monotone pareti casalinghe. E in quella passeggiata a cielo aperto non mancano di manifestare il loro amore, la loro ancora di sicurezza. Tenersi per mano è una certezza e una conferma. Basta poco, in fondo, per dirsi ti amo. E quando se ne andranno, Roberto sognava, se ne andranno sicuramente insieme.

Antonio è invece un signore anziano che Roberto incontra più volte. Occhi svegli e viso aperto. Si è fatto l’idea che Antonio passi tutta la giornata in bicicletta perché è lí che lo vede.
Porta una tuta da ginnastica e, quando fa più freddo, un giubbotto pesante. Antonio non scende mai, abita quella bicicletta e vaga avanti e indietro per il quartiere.
Gira infinite volte intorno a delle mura invisibili ma che nella sua testa sono sicuramente chiare. Saluta tutti indistintamente e tira dritto.
Antonio è puro presente, non sembra avere né un passato né un futuro. Se li è scrollati di dosso. È un criceto che gira nella ruota senza pretese. Fino a quando si stancherà e, sceso dalla bicicletta, la parcheggerà insieme al suo sorriso nel posto riservato ai cortesi.

E poi ci sono Juan, Fatima, Li, Aradhana: ma come si chiamano veramente? Tutti i figli di altri mondi arrivati lí, chissà come, chissà perché.
Roberto li vede uscire o entrare, sfuggenti, come ombre, quasi a scusarsi di essere lì, dentro o fuori appartamenti spesso fatiscenti, cadenti, mancanti.
Vorrebbe chiedergli come stanno, come va la vita, come tirano avanti. Soprattutto in questi giorni. Ma la diffidenza, di altra matrice, fa parte anche di loro. Essere continuamente esclusi, emarginati, condannati, giudicati, separati non può che alimentare quella diffidenza.

Roberto arriva quasi a pensare che esistano una diffidenza buona e una cattiva, o meglio una giustificata e una no. Ma che in ogni caso questa diffidenza è purtroppo la misura delle relazioni umani odierne. E non va bene, si dice Roberto. Non è possibile vivere chiusi dietro armature emotive inscalfibili. Qualcuno di questi fiori recisi quasi si risente ad essere osservati perché Roberto, è una sua peculiarità, non stacca mai gli occhi.
Roberto guarda, ha sempre guardato. Ma sempre con l’intento di capire, osservare, e non giudicare. Pochi lo capiscono però e molte volte lo sguardo di Roberto è stato denunciato, per indiscreta invadenza, al tribunale dell’incomprensione.

Roberto si sofferma perché gli altri non si fermano. E soffermarsi è un modo per avvicinarsi. Alle vite provvisorie e improvvisate di questi inevitabili esuli che, passata la frontiera, sono respinti al fronte della quotidianità e cadono inermi.
Roberto li guarda e, senza parole, assorbe la loro sopravvivenza fatta di piccole cose essenziali, scarti del finto benessere, con cui costruiscono i loro castelli di dolore.

Martina e Giada bigiano la scuola spesso. Troppo spesso. “Ma è scuola quella di ora?” si chiede Roberto. Dad: depressione a distanza.
In un’epoca già segnata da deficit di attenzione e concentrazione e altri disturbi la cui lista sempre più crescente (più o meno corrispondente alla realtà se non piuttosto un meccanismo di difesa degli adulti disinteressati a riconoscere i propri errori), ingombra le scrivanie dei presidi di mezzo mondo, ci mancava anche il deficit emozionale, l’assenza di emozioni condivise con tutto il corpo e non dietro il paravento di schermi asettici e degradanti.
Crescere senza sentire l’odore dei compagni, senza sputare gioia o rabbia a secondo del voto preso, senza intrecciare i propri sensi a quelli degli altri, senza l’incontro-scontro con i propri mentori, non è crescere: è vegetare in un acquitrino melmoso.

Peraltro, sostiene Roberto, la scuola e le famiglie hanno abdicato da tempo al ruolo di insegnare l’alfabetizzazione emotiva ai figli del domani. E questa ennesima, definitiva mazzata non farà altro che decapitare questi figli che resteranno mancanti, segnati, amputati; destinati a vivere relazioni nutrite di paura e diffidenza, incapaci di esprimersi.
Questo sostiene Roberto. E non può che rabbuiarsi. Martina e Gioia ammiccano pericolosamente quando incrociano Roberto. Un pomeriggio gli chiesero pure una sigaretta, proprio a lui che per farlo morire basterebbe fargli respirare il suo fumo, l’unico odore che Roberto non riesce a sopportare e che gli blocca il respiro.
Ammiccano e in qualche modo forse cercano un malizioso tentativo di esplorare qualche tabù o stuzzicare il fascino del proibito. Diventare adulte senza passare dal via, bruciare le tappe perché tanto le tappe sono saltate per aria, a causa di mine vaganti piazzate da incuranti educatori.
Roberto non capisce se siano provocazioni innocenti o consapevoli seduzioni. Immagina se…. Ma ogni volta prosegue imperterrito ripetendo che il fumo fa male. E che qualcuno dovrebbe seriamente occuparsi di attivare l’erotica dell’insegnamento.

C’è un ragazzo di colore che Roberto vede ogni giorno. Si salutano e si sorridono. Roberto lo chiama Teo. Teo corre. Corre con dedizione e convinzione e gira più volte intorno a un percorso che si è inventato.
Dove va? Cosa fa? Si sta allenando o gira a vuoto perché non sa cosa fare nel tempo immobile?
Roberto nota che il suo correre è particolare perché trascina una gamba il cui piede quasi non si alza da terra. È un correre quasi strusciato. Quanta fatica deve fare. Si domanda se non abbia subito qualche infortunio. Che comunque non lo ferma.
Teo va, suda tantissimo. Teo sorride. Teo vive. Pare una corsa contro il tempo, ma quale tempo? Roberto ha l’impressione che se Teo si fermasse, svanirebbe. Come molti, in questa età vacillante.

Giulia è una ragazzina che canta. Roberto si è fatto l’idea che rientri da una scuola di musica che ha scoperto essere lí vicino. La incontra solo il martedì pomeriggio, dopo la lezione, presume. Tornando a casa, Giulia canta e balla e fa credere a Roberto che la vita sia tutta lí, in quella ingenua e spensierata franchezza che neanche la bestia può annientare. E che i problemi cominciano quando si smette di cantare a squarciagola, intonando spartiti scritti da altri.
Lo chiamano crescere ma in verità è la perdita delle radici che ci hanno messo al mondo.
Passandogli accanto, Giulia non interrompe il canto, anzi ne aumenta i decibel con la sfacciataggine disinibita che solo chi ha ali piccole possiede. E a Roberto non dà per nulla fastidio questa provocazione. Anzi la rinforza, fischiettando a sua volta e condividendo per pochi passi quella gioia senza filtri. E invidia quella spensieratezza con la quale le sue scarpe sarebbe più leggere.

Infine c’è Marco davanti alla falegnameria. Marco è una statua di dolore e al telefono biascica monosillabi di disperata afflizione, può darsi ad un cliente. La falegnameria era del babbo ma ci è morto dentro qualche settimana fa per lo scoppio di un macchinario.
Roberto passava ogni pomeriggio davanti alla falegnameria, anche in quel giorno fatale, e senza parlarci, perché era spesso nascosto nel buio della stessa, aveva percepito la totale bontà del babbo di Marco. Anche senza conoscere, sono cose che si sentono, che ti attraversano come una luce limpida quando ci si connette alla nostra profonda umanità che resiste anche sotto la valanga di indifferente egoismo con cui la ricopriamo.
Il babbo di Marco era un uomo piccolo, cesellato da una vita dedicata al legno, taciturno e impolverato di bellezza. E Marco ne era la fotocopia giovane, l’apprendista uomo che ne seguiva le orme e il cuore. Il giorno della tragedia Roberto vide un locale sventrato e i nastri della polizia. Non c’era nessuno e non vide Marco per giorni. Solo mazzi di fiori che si accumulavano.

Qualche giorno dopo Roberto decise di avvicinarsi di più per provare a leggere qualche biglietto che accompagnava quei mazzi. Il primo che lèsse era proprio di Marco: parole di amore puro e devoto che lo fecero piangere. E se fosse stato lí lo avrebbe abbracciato con la paura tuttavia di sbriciolarlo per quanto intuiva la fragilità di Marco. Quando lo rivide, non ebbe il coraggio di dire nulla, anche se avrebbe voluto. Non voleva invadere quel dolore che aveva paralizzato Marco. La falegnameria era tornata agibile ma Marco stava sempre davanti all’entrata, così lo vedeva Roberto, come se non volesse entrare, non volesse disturbare il babbo.
Toccava a lui portare avanti il lavoro ma Roberto temeva che Marco non lo avrebbe fatto. Era un ragazzo che, senza il babbo, sarebbe ritornato ciocco di legno.

Adesso che il tempo lentamente ricominciava a camminare, nel proiettore mentale di Roberto scattavano le diapositive dei mille volti in cui si era imbattuto: una signora di una certa età che un giorno lo fermò per chiedergli come arrivare al cimitero e Roberto, dopo averle risposto, non sapeva se lo avesse chiesto per se stessa o per andare a trovare un defunto; un ragazzo nigeriano che a fatica portava dentro casa un materasso usato, perché sotto certi tetti, un materasso è tutto quello che conta; i ragazzi dell’est, albanesi e rumeni, che già dai pallidi mattini imburrati di foschia bevevano birra e giocavano a carte, seduti ai tavolini dell’unico barretto e lo avrebbero fatto per tutto il giorno, incuranti di tutto, assembrati e senza protezioni; i ragazzini con gli occhi alla deriva, imbalsamati dentro vite in cui non si riconoscono più, che, nascosti sotto uno scivolo per bambini, in pieno giorno di scuola, si impregnano di alcool e si intontiscono di canne; i tanti indomiti solitari corridori, protetti e storditi dalle loro cuffiette e gli occhi lanciati verso una sorta di immortalità campestre; tutti i volti intravisti: facce stanche, spaesate, vuote, sfiduciate, abbandonate, sospettose, assenti, bellicose: ma soprattutto spente perché si è bruciata la lampadina e non sanno più come cambiarla.

Roberto vorrebbe noleggiare un bus dove far salire tutti questi familiari sconosciuti, conoscere i loro nomi per poi fare l’appello e sentire dire a ciascuno di loro: “Presente!”. Poi metterebbe in moto con l’idea di portarli in gita in un luogo ampio e pianeggiante. Li farebbe scendere uno ad uno con un sorriso e poi camminerebbero tutti insieme senza meta ma a portata di mano.

(Leonardo Lastilla)