Capitolo terzo

«Salve», disse Vittorio avvicinandosi al portiere dell’Hotel Savoy, che, a dispetto del nome pretenzioso, era solo un piccolo albergo molto economico. L’uomo lo guardò con indifferenza; aveva già capito cosa era venuto a fare lì: “sgualdrine!” pensò, senza lasciare trasparire nulla.
Prese un piccolo foglio e disse: «Desidera una camera?»
«La 5» rispose sicuro lui.

L’uomo alla reception scrisse una cifra sul foglietto e lo girò, in silenzio. Vittorio osservò il numero. Alzò gli occhi e guardò fisso l’uomo. Il portiere scosse la testa e fece con le dita il segno di sfogliare della cartamoneta. Vittorio capì: per fortuna aveva appena ritirato l’incasso della giornata. Sfilò quindi la banconota dal portafoglio e gliela porse.
«Primo piano. La camera deve essere liberata entro le otto».
Il portiere afferrò la banconota, la infilò nel taschino della giacca e si rimise a leggere il giornale.

Vittorio salì le scale cigolanti immerse nella fioca luce delle abat-jour e si trovò davanti alla porta numero 5. Il coraggio, avuto fino ad allora, sembrava svanito. Sentiva le gambe molli, il cuore che pompava come se avesse compiuto una lunga corsa in bicicletta, mentre gocce sottili di sudore scendevano dalle tempie. Bussò con troppa delicatezza. Nessuno rispose. Esitò, le nocche rimaste a contatto con la porta. La mano partì di nuovo, senza essere comandata e l’attimo dopo il suo viso apparve.
«Ciao. Entra, su» disse ridendo Doris.

Vittorio si svegliò. Lei non c’era più. Si mise seduto sul letto. Il pallore della nebbia nascondeva la città fuori dalla finestra. Era lunedì mattina e, per fortuna, giorno di chiusura dell’Ariston.
I contorni della realtà, della notte passata con Doris divenivano sempre più chiari e netti e sentiva dentro salire una felicità mai vissuta; si grattò la testa perché si rese conto di non essere rientrato a casa.
Avrebbe dovuto trovare una scusa plausibile, anche se sapeva molto bene che non sarebbe riuscito a nascondere la bugia; ma dire la verità alla madre non era possibile. Sapeva bene come la pensava. Bussarono.
«Sì?» disse sovrappensiero.
«Devo rifare la camera» disse una voce di donna.

Lui si alzò dal letto, indossò i pantaloni, una veloce lavata di faccia, poi aprì la porta e uscì senza guardare né salutare la signora di cui avvertì tutta la disapprovazione per avere passato la notte con una “ballerina”. Scese le scale di corsa, quasi volando sui gradini e si fermò davanti al portiere diurno.
«Buongiorno», disse quello, gli occhi puntati sul grande quaderno dalla copertina sgualcita con annotate le presenze, le partenze, gli arrivi e il relativo numero delle camere.
Vittorio deglutì e con più indifferenza possibile, chiese: «La signorina della camera numero 5, ha lasciato per caso un biglietto?»

Ma l’altro, sempre con lo sguardo assorto e concentrato sulla matita, seguitando a segnare cifre e nomi, non rispose. Vittorio ora non sapeva più cosa chiedere. Gli sembrava impossibile che fosse svanita così, lasciandolo privo di un saluto.

Il portiere alzò lo sguardo, si tolse gli occhiali e disse, mentre estraeva un minuscola busta con stampato sopra il logo dell’albergo: «Vuole un consiglio, giovanotto?»
«Dica» rispose lui, con la mano bloccata nell’aria già protesa a prendere la busta.
«Se la dimentichi. Ci sono tante brave ragazze qui. Quelle, non fanno per lei. Conta solo questo» e strofinò le dita come se contasse dei soldi.
“Che mania!”, pensò indispettito Vittorio; prese la busta dalle sue dita, si voltò e uscì senza salutare.

Appena fuori, si appoggiò al muro umido e aprì con violenza la busta. “Sei un bravo ragazzo. Dimenticami. Doris.” Rimase a fissare quell’unica frase nell’illusoria speranza che le poche parole si potessero tramutare di colpo e le lettere scomporsi per formare le parole tanto sognate.

L’orologio della chiesa batté le ore. Vittorio guardò verso la piazza come se non avesse udito i rintocchi della campana. Infine, rimise il foglietto nella busta e si diresse verso casa. Percorreva vie immerse nell’atmosfera della notte appena conclusa e non avvertiva l’umidità entrare dalla giacca e dalla camicia semi aperta perché sentiva ancora addosso il calore del corpo di Doris, le sue carezze. Nelle orecchie gli risuonavano i loro gemiti, le risa di lei, la dolcezza che Elvira non le aveva mai trasmesso. Quando entrò in casa, lo sguardo della madre, impietoso e severo, lo trafisse; aveva capito tutto. Non c’era bisogno di aggiungere parola alcuna: e lui fece finta di niente.

Vittorio, con dentro una stanchezza improvvisa, percorse il lungo corridoio a piccoli passi in direzione del palcoscenico con il sipario chiuso. Malgrado quella notte avesse dormito sei ore si sentiva affaticato. Raggiunse lo stretto “golfo mistico”, da decenni ricoperto perché divenuto inservibile, e salì sul proscenio per infilarsi tra le due metà del sipario.

Entrò nel buio squarciato dalle lame sottili provenienti dalla luce della sala e si diresse con sicurezza verso la corda che serviva per azionare il sipario; in anni recenti gli avevano proposto di mettere un motore elettrico. Ma lui era troppo affezionato al piacere che aveva sempre provato nel sentire la corda tra le mani e mentre apriva il sipario avvertiva salire l’intensa emozione muta degli spettatori in trepida attesa nella sala: come il respiro trattenuto da un tuffatore prima del salto, in quell’istante il tempo pareva fermarsi.

E di nuovo alzò le braccia, strinse le dita attorno alla solida e spessa corda e, simile a un nuotatore di stile libero, allungava un braccio dopo l’altro, in una sequenza conosciuta e sincronizzata; non ricordava più l’ultima volta che l’aveva fatto. Il compito era passato in maniera definitiva al suo assistente Vladimiro.

Il sipario, cigolante ma morbido, si schiuse, come vele che vengono calate mentre il vascello giunge in porto, per finire ad arrestarsi contro il boccascena. Ora il palco era illuminato. Incollati alle pareti centinaia di manifesti, locandine degli spettacoli, che fin dal dopoguerra, suo padre e in seguito lui, avevano incollato all’inizio in file ordinate, per proseguire ricoprendo ogni spazio rimasto libero, fino a quando, conclusa l’epopea dell’avanspettacolo, della rivista, e infine anche delle tournée teatrali, divenute sempre più rare, non ne erano più stati affissi.

Quella distesa variegate e colorata su cui erano incisi i nomi, per lo più sconosciuti, di centinaia di attori, attrici, ballerini, comici, tecnici, musicisti, accanto ai grandi nomi della rivista, dell’avanspettacolo, del teatro, era divenuta motivo di orgoglio per Vittorio che non mancava mai di raccontare un aneddoto, un episodio, un incontro a chi aveva tempo e voglia di ascoltarlo.

Ma da tempo, sulle tavole di legno logore e scheggiate passavano solo piccole compagnie dialettali della cittadina e della provincia circostante, bambini e ragazzi delle scuole, o gli amministratori del comune in occasione di qualche celebrazione. Persino le serate dedicate ai film si erano via via ridotte ai soli fine settimana, causa la mancanza di spettatori attratti, oltre che dalla televisione e dai computer, ora anche dalla multisala, aperta tre anni prima nella zona del grande centro commerciale costruito nella “Nuova Donegallo”, come era stata soprannominata.

Vittorio si sentiva le gambe più deboli del solito. Capì di doversi sedere per riprendere forza. Diede un’occhiata al calendario appeso al muro, dove lui e Vladimiro segnavano, giorno per giorno, con una grafia minuscola, tutte gli impegni e le cose importanti da fare. Quel giorno, vide, avrebbero dovuto ordinare il gasolio per il riscaldamento. Alle 14,30, c’era scritto, “proiezione film”.
“Il caffè” pensò seduto su di una sedia.. L’unico concessogli dal dottore e che quella mattina non aveva preso.

Si alzò e riprese a camminare lungo il corridoio, ma un dolore lontano, come di un bisturi che inizia a incidere la pelle e allo stesso tempo affonda sempre più nella carne, si fece strada nel suo petto per divenire sempre più presente.

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