Nel mese di febbraio la rubrica letteraria “Lo scaffale della domenica”, a cura di Andrea Pagani, propone un interessante tema: la cultura mitteleuropea. Romanzi nati nell’ambiente e nella tradizione culturale dell’Impero asburgico, fra fine Ottocento e primi Novecento. Buona lettura!

Andrea Pagani

Una delle scrittrici d’area mitteleuropea che ha più efficacemente raccolto l’eredità narrativa di Franz Kafka è l’ungherese, naturalizzata svizzera, Agota Kristof, grazie alla forza visionaria e conturbante delle sue invenzioni letterarie.

Una prova emblematica di tale esperienza è il romanzo suddiviso in tre parti Trilogia della città di K., pubblicato fra il 1986 e il 1991. La Kristof, cresciuta a Csikvánd, un piccolo villaggio dell’Ungheria, fino al drammatico 1956, anno dell’intervento dell’Armata Rossa per soffocare la rivolta degli ungheresi contro l’invasione sovietica, e quindi costretta a rifugiarsi in Svizzera, racconta le tragedie della guerra in forme allegoriche: è la vicenda di due gemelli, Lucas e Klaus, e delle relazioni che intrecciano durante il conflitto bellico, in una fittizia città di nome K. che ha tutti i connotati di una città dell’est europeo.

Tuttavia, dentro questa cornice d’apparente realismo, con rari benché precisi riferimenti storici, si matura una narrazione straniante ed onirica, che presenta i tratti d’una inquietante favola nera. Agota Kristof riesce a muoversi con grande maestria su questo doppio piano della scrittura: la descrizione lucida, non di rado dettagliata e minuziosa dei fatti, e l’accostamento di situazioni allucinate, deformate, in uno scenario che ha qualcosa di apocalittico. Ne deriva una sorta di incubo ad occhi aperti, proprio come certi racconti di Kafka, dove la precisa rappresentazione degli eventi si accosta, per non dire si scontra, con la distorsione ruvida della verosimiglianza.

C’è un elemento, soprattutto, che determina questo affetto di straniamento: il fatto che i due gemelli sono fra loro interscambiabili, il che diventa quasi una forma di difesa e di protezione rispetto ai drammi che devono affrontare. Lucas e Klaus infatti sono affidati dalla Madre ad una Nonna crudele, soprannominata “la Strega”, un’anziana contadina che, invece di prendersi cura di loro, li maltratta, e tutta la realtà degli adulti con cui i gemelli devono fare i conti è contaminata dalle ingiustizie e dalle violenze. Da qui l’efficace definizione di Rosetta Loy di “favola nera”, perché il romanzo ha la tipica struttura narrativa della fiaba: la divisione fra buoni e cattivi, il percorso di formazione dei protagonisti (sempre contrassegnati col nome proprio), ma per l’appunto è “favola nera” perché il mondo circostante della guerra è aberrante, popolato da pochissime figure positive, e i due gemelli usano la loro strategia di interscambiabilità come una sorta di sopravvivenza.

Altro aspetto straniante è la rappresentazione dei luoghi: la storia si svolge in un ambiente indefinito, metafisico, mai nominato (si allude soltanto ad piccolo centro di un paese dell’Est europeo vicino ad una grande città dove cadono le bombe e da cui la gente scappa per mancanza di viveri).

La forza della narrazione si arricchisce dello stile della Kristof, essenziale, tagliente, costruito su molti dialoghi, una struttura paratattica, una quasi totale assenza di aggettivi, frasi frante, periodi sostantivati: una prosa affilata come lama di coltello, «che ha l’andatura di una marionetta omicida» (Giorgio Manganelli).

È la scrittura migliore per mettere in scena il dolore, senza retorica, in un mondo assediato dalle dittature, dove le macerie più strazianti sono quelle del crollo della morale e della dignità.

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(Andrea Pagani)