Ricordo che quando terminai la mia attività lavorativa in un istituto di credito locale, scrissi nel saluto a tutti i colleghi che restavano che “avevo vissuto tante bellissime esperienze, ma che i miei errori erano sempre stati un po’ più grandi dei miei sogni”.

Ecco, cosa si muove dentro di noi quando ci accorgiamo del nostro limite, quando vediamo un fallimento all’orizzonte della nostra vita? Non si tratta di rimpianto, quella sensazione che si prova quando si vorrebbe aver fatto di più. È molto peggio: si è fatto del proprio meglio ma, semplicemente, non è bastato. Questo genere di fallimenti è molto doloroso e lasciarseli alle spalle a volte è difficile. Ci si può chiudere in sé stessi e sperare che il tempo guarisca la ferita. Ma forse si può scegliere di affrontare la sofferenza e gestirla in modo attivo. In questo modo non ci si limiterebbe a lenire il malessere: con un po’ di conoscenza e di pratica si potrebbe trasformare il fallimento in una fonte di crescita, perfino di felicità.

Anche se è piccolo in confronto ad altri, ogni fallimento ha comunque un sapore amaro, soprattutto dopo aver fatto del proprio meglio. In assenza di facili giustificazioni, si continua a cercare delle spiegazioni per il tracollo che semplicemente non ci sono. È una cattiva idea: rimuginare su un fallimento lo mantiene davanti agli occhi e al centro della vita e può portare a sentirsi incapaci di andare oltre.

Invece di proteggere da future delusioni, ruminare su un fallimento può predisporre a ulteriori insuccessi o far perdere delle opportunità. Rimuginare su una sconfitta ostacola le persone a intraprendere qualcosa di nuovo, o le spinge a farlo con grande riluttanza. Medici e terapisti che curano la paura sanno da tempo che l’esposizione all’oggetto che la genera, può contribuire a renderlo più ordinario e quindi meno minaccioso. Un gruppo di ricercatori ha condotto un esperimento: hanno raccontato agli studenti i successi e i fallimenti di importanti scienziati, o solo i successi. Gli studiosi hanno scoperto che analizzare i fallimenti motivava gli studenti a gestire meglio le loro sconfitte e li aiutava a ottenere voti molto più alti rispetto ai ragazzi che venivano a conoscenza solo dei successi degli scienziati.

Il valore che creiamo al lavoro e nella vita ha a che fare meno con i traguardi che raggiungiamo e più con la nostra conoscenza e la nostra esperienza, compreso quello che impariamo dopo un fallimento.

Ci sono prove evidenti del fatto che il fallimento è un potente motore di miglioramento: il dolore di un rifiuto è passeggero, ma la lezione appresa può essere permanente. Concentrarsi sui propri valori di fondo aiuta inoltre a capire in primo luogo perché si è deciso di correre un rischio pur di raggiungere un obiettivo. Dire “sono una persona che ama, mi rendo vulnerabile e quindi posso essere ferita” è al tempo stesso più costruttivo e forse più preciso che dire “qualcuno mi ha ferito e il dolore non ha significato”. In questo modo inoltre il prezzo dell’aver vissuto un fallimento è bilanciato dal premio che deriva dal tenere presente che persona si cerca di essere. A prescindere da chi si è, il fallimento prima o poi si presenta. Non importa chiedersi se si fallirà, ma cosa fare dei fallimenti. Chi persegue un benessere superiore trova senso e scopo anche nelle sue battute d’arresto e in seguito riesce a diventare più forte ed efficace.

Forse, in queste ore drammatiche per l’Europa, dovremmo tutti ricordare che perseguire su strade che alla fine sono perdenti per tutti (lutti, macerie, odio fra i popoli) significa non aver lavorato bene sui fallimenti del passato!

(Tiziano Conti)